Ritornare. In modo dignitoso e sostenibile

Editoriale del numero 86 (1/2017) di Africa e Mediterraneo, “Ritornare”

Ouattara Watts, UNTITLED, undated mixed media on paper, 25x32 cm, Pavilion of Ivory Coast, 57th Venice Biennale.

Ouattara Watts, UNTITLED, undated mixed media on paper, 25×32 cm, Pavilion of Ivory Coast, 57th Venice Biennale.

Nel dibattito sull’asilo e sulla migrazione si sta facendo strada il tema del ritorno, non tanto quello di un migrante anziano che torna al Paese di origine dopo una vita di lavoro, ma soprattutto quello dei soggetti più giovani che sono ancora nel pieno del loro percorso esistenziale e professionale. Ci si interroga infatti in maniera crescente sul fenomeno dei richiedenti asilo costretti ad affrontare questo passaggio a causa del diniego alla loro domanda, o comunque del fallimento del processo di integrazione, così come sui casi in cui i migranti tornano indietro per scelta deliberata, con un progetto di impresa eventualmente sostenuto da politiche nazionali e internazionali. Inoltre, la crisi economica in Europa ha reso la vita dei migranti particolarmente difficile per quanto riguarda l’inserimento lavorativo, mentre l’acuirsi dei movimenti xenofobi ha creato nei territori ospitanti un clima più ostile e difficile.

Al tempo stesso, lo sviluppo di alcune economie africane richiede sempre più manodopera specializzata e il consolidamento di nuovi canali commerciali con gli operatori economici del Nord. Il Global Forum on Migration and Development (GFMD), infatti, vede la promozione della migrazione circolare come uno dei modi fondamentali per aumentare il contributo dei migranti internazionali allo sviluppo mondiale. Spesso la migrazione circolare viene vista come una win-win-win proposition, in quanto a beneficiarne sono sia i Paesi di origine, sia quelli di destinazione, sia i migranti.

Ma il ritorno non è una questione facile. La chiusura delle frontiere europee ha portato a concepire l’immigrazione dalle zone meno sviluppate del pianeta come una scelta estrema, possibile solo attraverso canali irregolari e, proprio per questo, senza prevedere la possibilità del ritorno. La fortezza Europa è talmente ambita, chiusa e irraggiungibile che, una volta che una persona è riuscita a entrare, magari grazie all’investimento di una famiglia o di un’intera comunità, il ritorno diventa un’opzione drammatica. Ogni migrante sa che un ritorno in tempi brevi, senza avere realizzato un qualche “successo” nella propria storia di migrazione, lo qualificherà come un fallito. Il ritorno, infatti, non è solo l’eroico nostos omerico, ma può essere anche sconfitta e fallimento.

I ritorni volontari sono sostenuti dai governi europei, e destinati a coloro ai quali viene respinta la richiesta d’asilo, per cui si può innanzitutto riflettere sull’ambiguità del termine “volontario”, chiedendosi quanto possa essere davvero volontario il ritorno di chi aveva fatto grandi sacrifici per lasciare il proprio Paese. Tali rientri assistiti appaiono inoltre estremamente difficili perché, nonostante i programmi messi in campo prevedano vari dispositivi come l’organizzazione e il pagamento del viaggio, un servizio di counseling e orientamento, l’erogazione di un’indennità, hanno dimostrato scarsa efficacia e risultati insoddisfacenti. Infatti, per i migranti forzati, ritornare significa reinserirsi in Paesi, come alcuni dell’Africa Sub-sahariana, in cui, anche se non ci sono guerre, la criminalizzazione degli spazi a bassa governance è un fenomeno crescente e allarmante ormai da numerosi anni. La corruzione del potere politico anche locale porta a un’erosione degli spazi residui di sovranità e di legalità in favore di un vacuum ove tutto è possibile.

Come è possibile allora far sì che il ritorno nella propria comunità rappresenti un valore per i giovani africani che con estremo rischio e costo umano ed economico ne sono usciti, e non il marchio evidente di chi non ce l’ha fatta e ha deluso le enormi aspettative della famiglia di origine?

Diversi progetti ed esperienze suggeriscono che si può intendere positivamente il ritorno, nel caso in cui il migrante acquisisca un know-how che gli permetta di contribuire allo sviluppo del proprio luogo di origine, in maniera attiva e propositiva. Chiamando in causa sia i Paesi ospitanti sia i soggetti migranti, in questo caso il ritorno deve avere una sostenibilità, che può essere ottenuta attivando percorsi di microcredito o di qualificazione professionale.

Il ritorno emerge come punto chiave dei documenti più recenti sullo sviluppo, tanto nell’Unione europea (UE) quanto nei singoli Stati membri, e rappresenta un nuovo capitolo del dibattito da tempo aperto sul rapporto migrazione-sviluppo. Tuttavia, come mostrato da alcuni contributi al dossier, il binomio ritorno-sviluppo non è automatico: sono necessarie politiche adeguate nei Paesi di origine per il reinserimento economico e sociale di chi torna. Ma altri articoli ricchi di spunti ci sono stati proposti per il dossier. Un’indagine di Pierluigi Musarò, Elena Liberati e Paola Parmiggiani, svolta nell’ambito dei recentissimi flussi di migranti forzati, analizza lo strumento dei ritorni volontari assistiti, indagando la percezione che ne hanno gli operatori dell’accoglienza, i mediatori interculturali, i migranti. Dai focus group realizzati emerge uno scetticismo generalizzato verso tali progetti di ritorno, che hanno potenzialità non espresse (o non percepite) e richiederebbero alcuni miglioramenti, sotto vari punti di vista, per essere realmente efficaci.

Sulla base di ricerche antropologiche condotte tra il 2009 e il 2015 in Mali, Spagna e Francia, Annalisa Maitilasso riflette sui ritorni volontari dei migranti maliani, considerando in particolar modo le difficoltà del processo di reintegro, che espone le persone alle pressioni e al giudizio delle comunità di origine. E c’è anche chi solo immagina la possibilità di un ritorno, senza poterlo o volerlo realizzare, tanto che si potrebbe parlare di “non ritorni”, mai compiuti o ripetutamente rimandati.

Considerare il rientro nei Paesi di origine come possibile motore di sviluppo, grazie alle competenze che i migranti acquisiscono nei Paesi di accoglienza, è un’idea ormai diffusa nel dibattito scientifico, ma non è così scontata. Meryem Lakhouite spiega come, in realtà, molti fattori determinano la riuscita dei progetto di ritorno: in primis, le politiche nazionali e internazionali, determinate dalle condizioni economiche e sociali dei Paesi di arrivo e di partenza.

Il focus dell’indagine di Kosta Barjaba e Joniada Barjaba è l’Albania, con un’analisi delle recenti politiche attuate dal governo nazionale per supportare i ritorni in patria di cittadini albanesi. Questi provvedimenti stanno cominciando ad avere dei risultati rilevanti, nonostante che la mancanza di coordinamento tra i vari organi istituzionali e la scarsità di risorse umane e finanziarie abbiano reso inizialmente debole l’impatto.

Due articoli inquadrano la prospettiva francese sul tema dei ritorni volontari. L’analisi di Sophie Mathieu ricostruisce i vari tipi di accompagnamento finanziario da parte del governo che si sono succeduti nel Paese, senza mai avere un reale consenso tra i potenziali beneficiari. Alcune contraddizioni sono messe in luce: alla base di tali politiche sembra celarsi la percezione della migrazione come un “problema” da risolvere, tramite un’opera di dissuasione a installarsi sul territorio francese.

L’indagine di Constance De Gourcy si concentra, invece, sulla mobilità degli studenti algerini in Francia. I cosiddetti soggiorni intermediari, svolti durante le vacanze presso le famiglie d’origine, offrono una prospettiva di studio interessante per comprendere meglio i percorsi migratori successivi. Gli studenti algerini che, una volta terminati gli studi, non possono restare con facilità in Francia finiscono spesso per riformulare il progetto migratorio iniziale sostituendo al ritorno un’ulteriore migrazione, spesso in Canada.

Valentina Fusari approfondisce la prospettiva dei ritorni volontari in Eritrea, rilevando la scarsità di programmi che sostengono la migrazione di ritorno. La trentennale guerra di liberazione e l’ultimo conflitto con l’Etiopia hanno causato notevoli flussi migratori. La mobilità circolare sembra oggi costituire un aspetto rilevante: sono sempre di più gli Eritrei che, ottenuto l’asilo in Europa, ritornano in patria per alcuni mesi l’anno.

Il ritorno può assumere anche la forma di rimesse, inviate dai migranti alle famiglie di origine. Nel 2016 più di 445 miliardi di dollari sono stati inviati nei Paesi a basso e a medio reddito. Sana F.K. Jatta mette in luce le recenti iniziative sul tema, sottolineando che le somme inviate dai migranti costituiscono, nell’immediato, un’importante risorsa per la sopravvivenza delle famiglie di origine, e a volte preparano il terreno per un futuro ritorno. Il Global Forum on Remittances, Investment and Development (GFRID), promosso dal Fondo internazionale delle Nazioni Unite per lo sviluppo agricolo (IFAD), raduna ogni due anni esperti di ogni settore (pubblico, privato e della società civile), per discutere e condividere buone pratiche e innovazioni del settore.

La diaspora senegalese si caratterizza per un forte orientamento ai progetti di ritorno: le storie dei migranti che ritornano in Senegal, raccolte dall’associazione Roma-Dakar, sono raccontate nel sito www.ritornoinsenegal.org. Nel presentarcele, Luca Santini suggerisce anche possibili strategie che sostengano le iniziative di ritorno e la costruzione di una comunità transnazionale, tramite politiche nazionali e internazionali di più ampio respiro.

Anche le seconde generazioni, portatrici di un’identità duplice e complessa, possono essere protagoniste di percorsi che comportano un ritorno alla terra d’origine. Giuseppe Grimaldi racconta la storia di Marta, una donna italiana di origine etiope, stabilitasi ad Addis Ababa per lavorare in una ONG, selezionata proprio in virtù della sua identità.

Una ricerca di Maria Elisa Dainelli sulle comunità di migranti ivoriani di origine attié nella città di Parigi presenta la sepoltura nella terra d’origine come estrema forma di ritorno, e racconta il significativo momento della veglia funebre, in cui si rinsalda l’identità originaria comune. Le iniziative della comunità attié sono sostenute attivamente dall’associazione CARAF, che raggruppa coloro che mantengono il legame con la Costa d’Avorio.

Le storie concrete di tre migranti che tornano in Senegal sono le protagoniste del web documentario di Marcella Pasotti e Silvia Lami. Demal Te Niew segue i percorsi di Ndary, Karou e Mouhamed, esplorandone la quotidianità, i successi, le difficoltà e le speranze nel ricostruire un progetto di vita e di lavoro.

Il progetto Ermes2 – promosso dal Ministero dell’Interno, cofinanziato dall’Unione europea, e realizzato dalla cooperativa sociale Open Group e da Virtus Italia – sostiene i ritorni volontari di migranti provenienti da Marocco, Tunisia, Albania e Senegal. Barbara Cassioli descrive le varie fasi del progetto, che prevede per i beneficiari un aiuto finanziario e l’assistenza di un’équipe, con servizi di consulenza e orientamento, fino all’arrivo nei Paesi di origine, in cui trovano l’assistenza di una ONG locale. Uno sguardo letterario su un celebre ritorno conclude il dossier: il Cahier d’un retour au pays natal di Aimé Césaire, uomo politico e poeta martinicano, offre a Francesca Romana Paci una traccia di riflessione profonda sulle vari e sfaccettature – umane, politiche, simboliche
– del ritorno.

Numerose e diversificate le riflessioni sul tema del ritorno dei migranti proposte dagli articoli qui contenuti: sui limiti, le difficoltà, ma anche sulle possibilità di sviluppo – inerenti il singolo e la comunità di appartenenza – che tale ritorno può comportare; e più in generale sulla circolarità dei processi di migrazione come occasione di sviluppo e di riscatto.

Ci sono casi di ritorni volontari, consapevoli e dignitosi, frutto di una scelta deliberata e non sempre interpretata come definitiva, che si possono tradurre in un’opportunità per il migrante, per il Paese di origine, per il Paese di immigrazione.

Tuttavia, sebbene sia generalizzato il consenso degli specialisti sui benefici che i Paesi d’origine e quelli di destinazione potrebbero ricevere dai rientri, dalle migrazioni circolari e dalla conseguente “circolazione delle competenze”, trarre il massimo vantaggio da tale potenziale rappresenta – per governi, enti, organismi internazionali – una sfida ancora aperta.