Black to the Future. Arte contemporanea e pratiche creative dell’abbigliamento in Africa e nella Diaspora

Africa e Mediterraneo n. 95 (2/21)

Black to the Future. Arte contemporanea e pratiche creative dell’abbigliamento in Africa e nella Diaspora.

Africa e Mediterraneo n. 95 (2/21)

Foto di copertina: Zohra Opoku, One of Me II, 2017-2020 (detail). Screenprint on textile, acrylic, thread. Courtesy of Mariane Ibrahim

Introduzione di Paul-Henri Souvenir Assako Assako, Ivan Bargna, Giovanna Parodi da Passano, Gabi Scardi

“Perché non vedere l’ambizione all’eleganza come espressione della volontà di sopravvivere?” Inaspettato, e stimolante, l’interrogativo[1] della fashion designer e filmmaker maliana Awa Meïté, pone delle domande. Sulla forza creatrice della bellezza, certo, ma soprattutto sulle ragioni che nel suo mondo fanno della ricerca dell’eleganza un bisogno, una questione vitale. Come spiegare altrimenti una tale enfasi sul modo di apparire?

Partendo dal Mali, pur con i limiti di ogni generalizzazione, potremmo andare oltre fino ad affermare che l’aspirazione all’eleganza – e segnatamente la ricerca di un look d’impatto attraverso lo stile appariscente degli abiti, da quelli di parata a quelli di strada – è modalità ricorrente attraverso cui in Africa – nelle culture black delle diaspore e nelle travagliate comunità di migranti – si rafforza la componente performativa, negoziale e relazionale di identità composite. In altre parole, la messa in scena del corpo attraverso un abbigliamento d’effetto, e fortemente assertivo, appare come una pratica diffusa nei contesti di socializzazione, di aggregazione e competizione in quell’ampia e diversificata galassia in cui oggi molti si riconoscono come appartenenti a una comunità nera globale all’interno della quale – come dice la scrittrice e sceneggiatrice anglo-nigeriana Theresa Ikoko – «si sente una connessione».[2] E dove il «diritto all’immaginazione» di cui ci parla Arjun Appadurai (2001: 77-92) – fondamentale nella costruzione di identità in grado di reggere le sollecitazioni e le ansie della globalizzazione – trova proprio nell’inventività del vestirsi una delle sue forme espressive, in modo particolare nelle metropoli dell’Africa occidentale e centrale, dove diviene una sorta d’intonazione generale.

«Espressione della volontà di sopravvivere». L’enfasi non è fuori luogo, anzi. Queste forme di espressività sono atti performativi che trasformano chi li produce, valorizzando il singolo – le apparenze contano come mise en place di sé – e nello stesso tempo portano avanti una serie di istanze collettive. Così – dati gli stretti rimandi fra corpo, persona e personalità e considerato il ruolo cruciale del pubblico che assiste – la performance estetica ed emozionale del corpo rivestito con outfit eclatanti in cui abbigliare è abbagliare (e qui il richiamo obbligato è alla celebre SAPE) incarna l’intenzione strategica del performer in risposta al contesto e sta lì a mostrare che il corpo vestito in quella maniera è un corpo in azione. Insomma, nei diversi scenari in cui si dispiega e interagisce, l’abbigliarsi è una forma efficace di agency, non solo per essere visti, ma per allargare la sfera di azione e di relazione della persona in un mondo fortemente globalizzato, interconnesso anche nella spettacolarità generalizzata e nella tensione permanente che l’apparire o il rischio dell’invisibilità comportano.

Il corpo, dunque, come primo luogo in cui si incarnano identità problematiche e in movimento, prodotte dalle connessioni e dalle tensioni tra mondi locali e più ampi scenari storici, economici, politici. Un corpo motore di creatività e moltiplicatore di presenza sociale, che si sperimenta in performance condizionate dal giudizio estetico e orientate in qualche misura dalle reazioni di chi guarda, assiste, partecipa. Un corpo immerso in un corso di vita fluido, operante e incorporante ciò che lo circonda.

La questione non può quindi ridursi a un semplice trasporto diffuso per l’eleganza spettacolare. Se l’inclinazione al vestirsi per fare colpo si aggancia allo spirito del tempo (dress to impress) lì però non si esaurisce. Nel nesso fra corpo e vestito vi è la costruzione del sé pubblico, individuale e comunitario, di classe e di genere, l’incorporazione di modi di vivere, sentire e pensare, una stratificazione storico-culturale fatta di eredità assunte e dismesse, rivendicate e subite. Da questo punto di vista potremmo dire che ogni vestito è un patchwork, una composizione più o meno riuscita di elementi eterogenei. Come dimostra tutta la storia dell’abbigliamento e dei commerci di tessili e filati, è una vicenda di incessanti appropriazioni e trasformazioni.

In molte tradizioni di pensiero africane la costruzione culturale del corpo ruota intorno all’esigenza di potenziarlo. Attrezzare il corpo, infatti, contribuisce non poco a esaltarne la potenza esistenziale e creativa. Va in questa direzione l’incorporazione di segni-forza – non di rado anche di origine straniera – come è stato il caso, in epoca coloniale, di stoffe, tenute e divise di origine europea che in quanto altre erano oggetto di fascinazione e appropriazione. Oggi la fascinazione è quella fashion esercitata dal sistema globale della moda, con la ripresa di segni cult della modernità in funzione di segni-forza, prodotti di una modernità globale e cosmopolita diventati elementi fondamentali di una modernità locale.

Sullo sfondo delle pratiche e manovre in atto sul terreno poroso e in continua evoluzione dell’abbigliamento c’è tutto ciò che ha contribuito a creare l’ambiente visivo nel quale viviamo. Dal campo delle estetiche del quotidiano a quello dei creativi africani della moda e dell’arte che lavorano sulle trasformazioni materiali e simboliche del corpo attraverso l’abbigliamento. Dai corpi rivestiti che cercano visibilità sociale e una maggior presa sulla propria esistenza sulla scena pubblica – passando anche dalla loro riproduzione in immagine attraverso una molteplicità di media – alla scena estetica contemporanea africana e delle diaspore. Una scena affollata, che offre innumerevoli opportunità di collaborazione fra artisti, fotografi, registi, fashion filmmaker, stilisti, fashion designer, designer tessili, attivisti visuali, coreografi, performer. Che si tratti degli afrodiscendenti delle diaspore, degli afropolitan affermati e ben integrati nei circuiti internazionali, o di chi vive in Africa – tutti operano all’interno di configurazioni culturali mondiali in cui mass media e social media, flussi globali di persone e cose, immagini e informazioni, generano una connettività diseguale ma generalizzata.

Nelle mani dei creatori odierni, segni e pratiche dell’abbigliamento si rivelano straordinari dispositivi per affrontare nodi cruciali della società contemporanea, rileggere diversamente il passato, raccontare il presente raccogliendone le sfide, provare ad andare oltre misurandosi con la sperimentazione di scenari sociali ed estetici alternativi, afrocentrici e utopici che, all’insegna del Blacks to the future, mescolano il passato culturale africano con il futuro della fantascienza. Defraudati del loro passato, gli artisti dell’Africa e delle diaspore rivendicano il diritto a immaginare un mondo futuro africano. Pionieri su questa strada sono stati gli esponenti della corrente culturale, sociale e artistica dell’“Afrofuturismo”, nata come spazio di resistenza nera negli anni Settanta del secolo scorso dalla sinergia di scrittori, musicisti e artisti afroamericani. Nel loro solco, oggi altri artisti (un nome per tutti può essere quello del keniano Cyrus Kabiru) frequentano questo campo di esplorazione estetica e politica dove la sfida è reinventare la realtà attraverso la «lente culturale nera» (Womack 2013).

Archiviata ormai, già a partire dagli anni a ridosso dell’indipendenza, la schematica contrapposizione fra tradizione e modernità, nel fervore artistico che si muove tra Africa e altrove – e che riflette la crescente natura transnazionale dell’arte contemporanea – rimangono ancora in ogni caso le dolorose collisioni tra passato e presente. Così come rimangono le risonanze del passato, anche se all’interno di linguaggi estetici attualissimi e globali, nelle scelte estetiche visionarie di più artisti africani e caraibici le cui diverse produzioni risultano apparentate nel rimettere in gioco una spiritualità dinamica che poggia su fondamenta precoloniali, e che riconduce a contesti in cui la potenza fisica è tradizionalmente associata a forze spirituali e in cui la linea fra realtà e immaginazione sfuma. Da segnalare in particolare, a questo proposito, il fashion film d’autore diretto dalla fotografa e artista visiva sudafricana Kristin-Lee Moolman per Alchemy, la collezione A/W 2021 – disegnata con l’apporto di una guaritrice tradizionale – del giovane fashion designer suo conterraneo Thebe Magugu.

Da sottolineare inoltre è il gran numero di creatori che nelle loro opere affrontano tematiche identitarie. Sono in gran parte autori che prendono in considerazione il ruolo cruciale delle stoffe nella rappresentazione e riproduzione delle identità coloniali e postcoloniali africane, esplorando in modo critico e ridefinendo in chiave visiva l’ambigua relazione fra l’arte fotografica del ritratto e dell’autoritratto (e i suoi effetti performativi-trasformativi) e i tessuti – in prevalenza quelli vissuti come “autenticamente africani” perché assunti convenzionalmente come indicatori di “africanità” in nome di una “tradizione” più o meno costruita o ricostruita (spicca la presenza ubiquitaria del wax print o African print). Anche laddove il richiamo è a culture dell’abbigliamento specifiche, difficilmente restano relegate alla dimensione locale ma come nel caso, ad esempio, degli ormai diffusissimi bogolan, indigo e kente vengono rinnovati e rilanciati su una scena più ampia, anche per rispondere alla sete di novità che muove il mercato dell’arte e della moda (particolarmente stimolante a questo proposito il progetto di Alia Ali – artista yemenita, bosniaca e statunitense – che nelle sue opere utilizza anche stoffe africane).

Nel sistema sempre più integrato dell’arte della moda e del design, oggi trovano molto spazio anche temi di grande rilevanza sociale e politica come quelli dell’inclusività, dell’equità e dei diritti sociali e culturali. Collegata al resto del mondo e consapevole dell’avvenuta uscita di scena dell’occidente come unica misura del mondo, una giovane e militante generazione di artisti (fra loro numerose le donne), in continuità e discontinuità al contempo con le generazioni di artisti “born free” (nati dopo l’indipendenza) che l’hanno preceduta, spesso partendo da vissuti strettamente personali, riesce a trascendere la specificità della esperienza individuale per inserirsi in un dialogo globale – sempre più aperto alle eredità culturali non eurocentriche – intorno alle più incisive istanze sociali e politiche. Si tratta di artisti che combinano la riflessione sociale con la sperimentazione formale attraverso una produzione che comprende installazioni e collage multimediali, performance, fotografie, immagini digitali, video, film, disegni, incisioni, pittura, scultura (ma anche danza, musica, poesia).

A venire affrontati nei lavori degli autori emergenti degli ultimi decenni (moltissimi, faremo solo qualche nome a titolo di esempio) sono temi sensibili e controversi: le questioni della differenza di genere (la keniana Ato Malinda), dell’identità (il senegalese Omar Victor Diop), dell’heritage (la nigeriana residente negli Stati Uniti Njideka Akunyili Crosby), dell’appartenenza (il sudafricano Siwa Mbogoza), della costruzione della memoria (la sudafricana Lebohang Kganye), dell’emergenza ambientale (il maliano Abdoulaye Konaté), della devastazione del territorio (il nigeriano George Osodi), del recupero di visioni e costrutti di una spiritualità d’impronta africana (l’artista e fotografa haitiana cresciuta a New York Fabiola Jean-Louis). A ritornare, inoltre, sono anche la denuncia sociale (il sudafricano Simphiwe Ndzube) e politica (Kudzanai Chiurai, nato nello Zimbabwe ma in esilio autoimposto per lunghi periodi in Sudafrica), così come la contestazione della feticizzazione culturale dell’Africa nera (Grace Ndiritu, artista di origine keniana nata a Birmingham) e delle idee di autenticità e essenzialità insite nei pregiudizi duri a morire legati al corpo nero (la ghanese Zohra Opoku), e in particolare al corpo della donna nera (la sudafricana Mary Sibande). Come si può vedere, fra le note dominanti spiccano le problematiche attuali inerenti alla differenza di genere e alla sessualità femminile, con il cursore spesso puntato sulle istanze della comunità LGBTQ (per esempio la sudafricana Zanele Muholi). In breve, a dominare è la criticità delle identità, personali, culturali, razziali e di genere: a partire dalle discriminazioni sessuali a quelle razziali (la sudafricana Stephanie “Kenyaa” Mzee), con rimandi tanto alle storiche sopraffazioni nei confronti dei neri – la tratta atlantica ma non solo (la sudafricana Kitso Lynn Lelliot) –, quanto ai soprusi perpetrati nelle odierne migrazioni all’esterno e all’interno del continente africano (la sudafricana Nobukho Nqaba).

Nella produzione di questi artisti, memoria e vita dei tessuti e agency del vestiario e del corpo diventano potenti strumenti per decentrare la prospettiva occidentale, rifiutare radicati paradigmi escludenti, arrivando a ribaltare la percezione negativa della Blackness spostandola dai margini della storia al centro della scena (Picarelli in questo dossier), fare i conti con vecchi e nuovi colonialismi e insieme, per citare Alessandro Triulzi, «con l’ambiguo immaginario di possesso e di dominio» (2005: 114) che continua a influenzare il prisma visivo degli ex colonizzatori e, in qualche modo, sembra ancora condizionare lo sguardo degli ex colonizzati.

Gli articoli raccolti in questo dossier affrontano il tema del nesso fra arte contemporanea e pratiche creative dell’abbigliamento in Africa e nella Diaspora da una molteplicità di prospettive sia teoriche che pratiche. Che si tratti di saggi o di esperienze, riflessione ed operatività vi appaiono come strettamente congiunte: in tutti i casi si tratta di confrontarsi con dinamiche sociali, culturali ed economiche che richiedono una presa di posizione, una consapevolezza delle poste politiche in gioco. Più che di rappresentazioni di stati di fatto, si tratta di interventi che tentano intercettare, facilitare o produrre, trasformazioni. Questo d’altra parte appare pressoché inevitabile, nella misura in cui tanto l’arte quanto l’abbigliamento sono pratiche che incentivano la sperimentazione, luoghi in cui le identità sociali e personali sono messe in gioco, rimodellate e rinnovate.

La dimensione temporale evocata dal titolo di questo dossier – Black to the Future – riprendendo il famoso film di Zameckis, rimarca la centralità del rapporto fra passato e futuro che contrassegna qualsiasi processo di cambiamento: che cosa si vuole o si può lasciare andare e cosa si desidera o si è costretti a portarsi dietro o reinventare.

Uno dei nodi ineludibili resta quello dell’eredità coloniale e post-indipendenza, dei rapporti complessi e non lineari fra modernità e tradizione, dei modi in cui aprono o restringono i futuri che si possono immaginare e realizzare. E questo a partire dalle sollecitazioni del presente, tra cui un posto di rilievo hanno avuto le questioni poste dai movimenti #MeToo e #BLM (Black Lives Matter) e la loro risonanza internazionale.

Alcuni degli articoli affrontano i temi posti da questo dossier da una prospettiva di tipo storico-antropologico, illuminando come le pratiche dell’abbigliamento contribuiscano ad articolare, mantenere o mutare identità nazionali e di genere. È il caso di Marco Sottilotta che propone una lettura delle politiche della memoria dei Baganda dell’Uganda e dei modi attraverso cui – definendo quale sia l’abbigliamento “tradizionale” se ne faccia un elemento di riconoscibilità – un’espressione appropriata, dell’essere sudditi del regno. In realtà quelli che sono i tessuti in corteccia che rimandano al passato precoloniale restano ai margini, valorizzati solo negli usi utili legati alle politiche di patrimonializzazione della cultura e del suo sfruttamento turistico, mentre il dress-code ufficiale è quello in cui si mischiano elementi di derivazione araba, indiani e britannici reinterpretati alla luce del presente, evidenziando come l’esperienza coloniale sia stata integrata e metabolizzata, dando luogo a un insieme di autorappresentazioni nazionali ibride e nel contempo “autentiche”.

Questioni in parte analoghe sono quelle che solleva l’articolo che Maria Suriano dedica al dibattito intercorso nella Tanzania negli anni ‘60 – ma con conseguenze che si estendono agli anni ‘80 – su quale sia l’autentica cultura nazionale, cha ha portato a legiferare sull’abbigliamento talora bandendo quello di derivazione occidentale, con particolare riguardo ai giovani e le donne i cui indumenti (pantaloni e minigonne) potevano incoraggiarne la libertà sessuale e l’autonomia dall’autorità patriarcale. Un invito alla “modestia” in cui l’appello alle pratiche di abbigliamento precoloniale si conciliava in realtà con le analoghe preoccupazioni dei missionari coloniali che stigmatizzavano la “nudità” dei “primitivi”. Quel che qui si coglie è il tentativo di attuare un recupero selettivo della “tradizione” che possa conciliarsi con l’imperativo modernista allo sviluppo.

L’agentività politica dell’abbigliamento che ne fa non solo il riflesso di una realtà preesistente ma uno dei luoghi e strumenti per incidere politicamente sui rapporti di forza, è presente anche nell’articolo di Avi Sooful, ma questa volta spostando l’attenzione dal lato dei gruppi oppressi, laddove l’abbigliamento diviene un’arte della resistenza. L’autrice esamina il ruolo svolto in Sudafrica dalle T-shirt anti-apartheid negli anni ‘80, quale strategia politica per combattere la segregazione razziale attraverso rappresentazioni visuali che poggiano sui corpi delle persone: magliette che, con parole e immagini, portano sulla scena pubblica le rivendicazioni dell’organizzazioni anti-apartheid messe fuori legge, sfidando repressione, censura e le uniformi di esercito e polizia. Rafforzando il senso di appartenenza comunitaria aprono uno spazio simbolico in cui il cambiamento appare possibile. Un’apertura del futuro che passa dall’appropriazione attiva di una storia nata negli USA quando le T-shirt erano capi di abbigliamento intimo dei soldati americani, per divenire poi, negli anni ‘60 e ‘70 segno distintivo dei movimenti per i diritti civili.

In questi articoli è evidente la ricaduta politica effettiva delle arti ed estetiche culturali dell’abbigliamento, quel che gli altri articoli aggiungono è la tematizzazione dei rapporti fra pratiche quotidiane, arte contemporanea, sistema della moda e professioni creative.

Priscilla Manfren nel suo saggio ripercorre la genesi dei tessuti con stampa a cera africani (wax) rimarcando come siano stati celebrati e rivisitati da fotografi e pittori africani, africano-americani e più in generale della diaspora, tra cui il britannico-nigeriano Yinka Shonibare che ha mostrato come la loro “africanità” sia inscindibile dallo spazio coloniale e quindi espressione significativa del carattere composito delle identità postcoloniali. Nati in Indonesia, prodotti e commercializzati in Africa dagli Olandesi cercando di corrispondere alla sensibilità estetica dei consumatori africani, vengono integrati nella vita sociale delle persone indossandoli, dando loro un nome, associandovi motti e proverbi. Staccati dalla foggia consueta dei pagne femminili, negli anni ‘80 e ‘90 vengono trasformati con taglio sartoriale in abiti di ispirazione occidentale, che danno luogo a una nuova stratificazione di senso. Puntando in particolare la sua attenzione su due artiste – l’africano-americana Bisa Butler e la nigeriana Marcellina Akpojotor – Priscilla Manfren esamina come l’abbigliamento sia un elemento costitutivo del ritratto, contribuendo a contrastare il razzismo attraverso l’incontro con l’umanità della persona che esso consente.

Molti degli articoli nel porre la questione del rapporto, mediato dal sistema della moda, fra arte contemporanea e pratiche di abbigliamento, sottolineano sia la centralità della dimensione economica e del lavoro come anche l’osmosi che si stabilisce fra i due ambiti e il sovrapporsi di artista e stilista nella figura di un “imprenditore culturale” che è spesso e nel contempo, talora con qualche ambiguità, attivista politico. La rilevanza sociale della moda e dell’arte emerge nella loro visibilità e influenza nella creazione di prodotti iconici di consumo che fanno da supporto alla costruzione di relazioni, identità, appartenenze, vite: anticipano o interpretano tendenze culturali in corso potenziandole o cannibalizzandole.

Beatrice Polato nel suo articolo delinea i rapporti fra scena artistica e moda nel Kenya degli ultimi venti anni. In una società che conosce un forte sviluppo economico nasce un’industria della moda che attinge a forme di creatività diffusa presenti sia nelle grandi città che nei piccoli villaggi e vede il protagonismo di artisti ideatori di linee di moda. Una dimensione economica che solleva un dibattito su identità nazionale e africana, estetiche del corpo, globalizzazione, sostenibilità ambientale, significato dell’arte contemporanea, attrattività interna o internazionale del brand “made in Kenya”.

In modo significativo l’esigenza od opportunità di creare un brand emerge in diversi articoli: qui la dimensione politica del riconoscimento si coniuga con quella economica del poter vivere del proprio lavoro, di acquisire visibilità in un mercato competitivo e asimmetrico, in un’economia capitalistica contrassegnata da forti concentrazioni di potere. L’icona personificata del brand diviene occasione per promuovere modi diversi di consumo e di relazioni sociali.

Enrica Picarelli nel suo saggio analizza l’opera degli stilisti Walé Oyéjidé (figlio di nigeriani migrati negli Stati Uniti) e Nyambo Masamara (ruandese che ha vissuto per molti anni come rifugiato in diversi paesi per poi stabilirsi in Sudafrica) mostrando come, rielaborando le loro esperienze personali di dislocazione con gli strumenti dell’arte e della moda, riflettano sulle relazioni fra spazio, mobilità e abbigliamento. Uno degli esiti di questo lavoro è la creazione di un “brand di design migrante” in grado di migliorare la vita delle persone, di ridefinire le condizioni di un “made in Africa” sostenibile, denunciando il razzismo perdurante nel sistema della moda globale.

Questioni che per certi versi simili ritornano in “B&W-Black&White, The Migrant Trend”, un progetto dell’artista Caterina Pecchioli che si colloca nel punto di intersezione fra arte e moda. Attraverso laboratori che coinvolgono attivamente richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale, si cerca di elaborare uno “stile migrante” che attinga sia dai diversi paesi da cui provengono che dalle competenze di sarti e stilisti africani residenti in Italia, da repertori culturali ridefiniti nell’esperienza della migrazione, così da riorientare il “made in Italy” nella direzione di una moda etica, socialmente sostenibile e inclusiva.

La ridefinizione del “made in Italy” è alla base anche del WAMI Project (We Are Made in Italy) promosso nel 2020 da Michelle F. Ngonmo, talent-scout di origini camerunesi ideatrice dell’Afro Fashion Week Milano, insieme ad altri professionisti italiani neri della moda come gli stilisti Stella Jean ed Edward Buchanan. Le questioni poste dal movimento americano di #BLM vengono declinate sul terreno della industria italiana della moda: “Do Black Lives Matter in Italian Fashion?”. È questione di accesso e rappresentanza, non di colore della pelle e di eredità culturale ma di riconoscimento di talento e professionalità contro ogni discriminazione. Agire sul sistema della moda reclamando uguaglianza e pari opportunità significa mettere in moto un cambiamento che potrebbe coinvolgere la società italiana nel suo insieme, ripensando il “made in Italy” a partire dalla considerazione che la moda è fatta di persone e non solo di cose: “we are made in Italy and Italy is made of us”.

Che le questioni poste dai temi toccati da questo dossier siano socialmente rilevanti da molti punti vista è indicato anche dagli altri esempi di laboratori e sperimentazioni che completano questo numero.

Il poeta e performer di origine camerunese Stone Karim Mohamad – che allaccia per strada conversazioni con le persone  a partire dalle reazioni suscitate dall’abito tradizionale ndop dei Bamileke del Camerun – mostra lo scollamento, anche agli occhi delle nuove generazioni di origine camerunese che vivono in Germania, fra la sua apparenza visibile e la storia e i significati di cui è portatore: il suo essere divenuto “out of fashion” in conseguenza della dominazione coloniale così come il suo tornare cool alla luce di film come Black Panthers. Nella sua collaborazione con l’antropologa Sandra Ferracuti e il danzatore Zobel Raoul Tejeutsa al Linden-Museum di Stoccarda, emerge come all’interno del museo quel che appare, a partire dai modi di vestire, viene letto diversamente a seconda del posizionamento di chi guarda.

Lawrence Kyere e Rosa Pfluger riflettono su una loro esperienza condotta nel 2020, nel periodo pandemico, in occasione di una mostra d’arte promossa dagli studenti dell’Accademia di Belle Arti di Monaco di Baviera. Safety Suit è una serie di dieci oggetti indossabili per difendersi delle minacce portate dalla violenza razziale, dai cambiamenti climatici e dal Covid. Per quanto disegnati per proteggere, in realtà questi abiti rivelano solo la vulnerabilità del corpo, dimostrando come la sicurezza possa essere raggiunta solo attraverso solidarietà e uguaglianza.

Nel laboratorio artistico condotto da Leda Perretta con donne nigeriane e italiane la destrutturazione e ricomposizione dalla forma dei vestiti diviene invece una modalità di esplorazione del proprio corpo e dell’immaginario e degli stereotipi che lo avvolgono, per cercare di andare oltre, realizzando vestiti che consentano un diverso modo di muoversi nel mondo, di avere corpi s-vestiti dai pregiudizi.

L’ondata del Black Lives Matter nella sua denuncia delle forme di razzismo strutturale incistate in molti sistemi sociali e quindi delle discriminazioni e disuguaglianze che ne derivano a tutti i livelli ha travolto anche il mondo dell’arte e della moda, accelerando tendenze già in atto che ne stanno mutando l’economia e la geografia, ormai policentrica, senza un cuore occidentale, almeno negli apporti che gli danno forma, anche se non nei centri decisionali (Bloemberg, Deul, Kesteren 2021). In misura crescente, musei prestigiosi e gallerie di peso rivedono le loro collezioni aprendole a sensibilità e filoni fino a ieri poco rappresentati quando non trascurati. E costringendo direttori di musei, galleristi, critici, art curator, art advisor, case d’asta, aziende, riviste di settore e collezionisti a dialogare con le contrastanti memorie del passato e con il presente e a riflettere su appropriazione culturale, diritti d’autore individuali e collettivi, politiche del riconoscimento, parità di accesso alle risorse materiali e simboliche. In breve, a ripensare l’intero sistema dell’arte contemporanea e della moda, le sue gerarchie, i suoi criteri di affiliazione e modelli di finanziamento. Il valore delle Black Lives si concretizza nell’incremento, recepito dal mercato, del valore attribuito alla forza creativa delle differenti forme visive e narrative degli artisti africani e africano-americani (molte le donne). E si traduce in una rivendicazione da parte di questi artisti del valore all’esperienza estetica della Blackness mischiando rivendicazioni politiche e usi imprenditoriali dell’identità culturale e razziale che aprono nuovi mercati per un’economia capitalistica che si nutre delle differenze. È un terreno conteso in cui l’immaginazione oggi è per artisti e stilisti anche una palestra per l’azione e il motore di un’economia che produce valore a partire dall’immaterialità di segni e simboli.

Bibliografia

Appadurai, A. (2001), Modernità in polvere, Meltemi, Roma. Trad. it. di: Modernity at Large: Cultural Dimensions of Globalization, Minneapolis and London, University of Minnesota Press, 1996

Bloemberg, N., Deul, J., Kesteren, A.-K. (2021), Voices of Fashion. Black Couture, Beauty & Styles, Waanders Uitgevers, Zwolle

Boltanski, L., Esquerre, A. (2017), Enrichissement. Une critique de la merchandise, Gallimard, Paris

Triulzi, A. (2005), “Lo sguardo coloniale. Appunti sulla costruzione dell’altro nella collezione fotografica della Società africana d’Italia”, in C. Pasquinelli (a cura di), Occidentalismi, Carocci, Roma

Womack, Y. L. (2013), Afrofuturism: The World of Black Sci-Fi and Fantasy Culture, Lawrence Hill Books Publisher

Paul-Henri Souvenir Assako Assako, Ph.D, docente senior, capo della sezione di storia dell’arte e belle arti presso l’Università di Yaoundé I in Camerun e direttore della Libre Académie des Beaux-arts (LABA) di Douala, lavora con esperti dal 2010 nella cooperazione artistico-culturale, grazie al sostegno del Goethe-Institut di Yaoundé, dal Ministero degli Esteri italiano e dall’olandese Mondriaan Stichting. La sua ricerca accademica è focalizzata sulla trasformazione dell’arte visiva nel XX secolo in Africa; si occupa anche di scrittura, curatela di esposizioni e incontri organizzati con diversi partner tra cui l’ONG italiana COE, the Goethe-Institut, Doual’art, Enough Room for Space.

Ivan Bargna è professore ordinario all’università di Milano-Bicocca dove insegna Antropologia estetica e Antropologia dei media. È presidente del corso di laurea in Scienze antropologiche ed Etnologiche, direttore del corso di perfezionamento in Antropologia museale e dell’arte e docente di Antropologia culturale all’università Bocconi. Dal 2001 conduce le sue ricerche etnografiche in Camerun dove si occupa di pratiche artistiche e cultura visuale. Collabora con artisti e curatori d’arte contemporanea nella realizzazione di progetti interdisciplinari basati sulla pratica etnografica. È membro del comitato scientifico del Museo delle Culture di Milano e curatore di mostre.

Giovanna Parodi da Passano è docente di Antropologia africanista nel corso di laurea magistrale in Scienze Storiche del DAFIST, Università di Genova. Africanista di formazione, ha condotto le sue ricerche etnografiche prevalentemente in Africa occidentale, nelle aree culturali akan e yoruba. La sua attuale ricerca si concentra sulle pratiche creative dell’abbigliamento e sugli artisti contemporanei in Africa e nelle diaspore africane che utilizzano i tessuti e la costruzione e decostruzione del corpo vestito. Su questi temi ha curato mostre, partecipato a convegni internazionali e pubblicato studi, tra cui African Power Dressing (2015, a cura di).

Gabi Scardi è storica dell’arte, curatrice di arte contemporanea e docente. La sua ricerca si focalizza sulle relazioni tra arte e ambiti limitrofi legati all’abitare e al coabitare, alle dinamiche urbane e interculturali. Si interessa di politiche culturali. Ha lavorato con musei e istituzioni in Italia e all’estero. Tra le mostre sulla relazione tra arte e abito: miAbito (Francesco Bertelé, Francesca Marconi, Margherita Morgantin, Wurmkos), Milano 2018-19; Emilio Fantin, Ultrapelle, Farmacia Wurmkos, Milano 2018; Fashion as Social Energy, Palazzo Morando, Milano 2015; Aware: Art Fashion Identity, GSK Contemporary, Royal Academy, Londra 2010.

[1] “Uno stile africano”, D la Repubblica 10/12/2005.

[2] “La cultura nera è abitare due case”, Sette Corsera 11/12/2020.

 

SOMMARIO

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