Agency, interazione, identità: il vestire in Africa

di Giovanna Parodi da Passano

Giovanna Parodi da Passano, Agency, interazione, identità: il vestire in Africa, dal numero 85 (2/2016) di Africa e Mediterraneo, “Moda e sviluppo in Africa”

Ikiré Jones, un momento della sfilata Generation Africa. © Giovanni Giannoni

Ikiré Jones, un momento della sfilata Generation Africa. © Giovanni Giannoni

 

L’enfasi sugli effetti performativi del “corpo rivestito”, con la straordinaria creatività nel campo dell’abbigliamento e del fashion che ne deriva, è una presenza così radicata e pervasiva nelle società africane subsahariane da indurre la sensazione che sia lì da sempre. Poi si va a vedere e si scopre che, come tutto, una storia ce l’ha. Solo che a lungo nelle scritture etnografiche la storicità delle culture africane non è presa in considerazione. Così come, del resto, è anche piuttosto tardivo l’interesse di storici ed etnologi africanisti nei confronti delle pratiche del vestire locali (trattate in genere nei testi della prima fase del pensiero antropologico, e non soltanto, in maniera sommaria e secondo una visione essenzialista e fissista dell’abbigliamento che lo includeva negli “usi e costumi tradizionali”). È relativamente recente, insomma, la particolare attenzione degli antropologi sia per l’azione simbolica del vestirsi, sia per le biografie culturali – vale a dire per gli orizzonti relazionali e i tragitti nello spazio e nel tempo – di indumenti, ornamenti e tessuti. In altre parole, l’ambito del vestiario e, a maggior ragione, della moda – voci imparentate fra loro che trascinano con sé diversi campi – si è presentato in un primo tempo come un settore degli studi eclettico, di scarso spessore teorico: da un lato le pratiche dell’abbigliamento non sono parse immediatamente agli antropologi un oggetto degno di analisi specifiche o di elaborazioni teoriche; dall’altro, per quanto riguarda la moda, un pregiudizio comune a tutte le scienze sociali ne ha ostacolato lo studio in quanto fenomeno tacciato di “frivolezza”. Oggi sappiamo che è vero il contrario. Non a caso nella nuova agenda della ricerca africanistica, emersa dalle istanze critiche dell’antropologia postmoderna, risulta completamente ribaltato il precedente (e persistente) giudizio di scarsa legittimità come oggetto di ricerca attribuito al vasto tema del corpo, delle sue manipolazioni e dei suoi rivestimenti.

A partire dagli anni Settanta – e quindi nel pieno di un periodo di cambiamento cruciale (innescato dalla svolta storica del processo di decolonizzazione globale) di un discorso antropologico che è ormai dentro a una concezione dell’antropologia dove il “locale” è in stretto rapporto con il “globale” – lo studio del vestiario e dei processi di costruzione del corpo (quando si parla di abito si parla necessariamente anche di corpo) ha aperto nuove aree di ricerca. In maniera sempre più approfondita il corpo viene esplorato tanto come strumento culturale e prodotto storico, quanto come soggetto “in processo” e luogo di performance (nella prospettiva di una costruzione sempre aperta dell’identità), dimostrandosi un inesauribile campo d’indagine. Così, negli ultimi decenni diverse accreditate e innovative ricerche di terreno sull’abbigliamento, sui tessuti e sulle arti connesse in Africa, hanno fatto emergere come fondamentali per la comprensione dell’azione sociale e del sistema politico all’interno di molte realtà africane le questioni poste dal protagonismo sociale dei tessuti e dalla centralità delle forme e delle pratiche dell’abbigliamento – dal ruolo attivo di stoffe e vestiti nei contesti di agency e di performance del corpo, alla rilevanza culturale dei processi di estetizzazione diffusa e di estetica dell’azione.

È dunque grazie all’apporto degli ultimi studi, provenienti dalle aree di competenza più varie (la trattazione di questi argomenti esige una dimensione interdisciplinare), che si è ampiamente evidenziato come in Africa e nella diaspora quelli del vestire siano mondi performativi (in cui capi d’abbigliamento e tessuti più che caratterizzare mettono in movimento) attraversati da una grande vitalità artistica; e come in una qualche misura le politiche del corpo e del vestiario siano sempre relazionate alle prove di forza fra i viventi. In questo gioco complesso e costante vestiti e accessori, dotati di una loro agentività, entrano nel campo delle forze attive che si confrontano nel circuito rituale e nell’agone politico (va in ogni caso aggiunto che anche in assenza di simili scenari gli abiti vengono raramente indossati in maniera passiva).

Pensare la dimensione estetica del corpo abbigliato in chiave di agency e di empowerment rende gli indumenti e i segni che incidono o decorano il corpo (decorazioni, scarificazioni, pitture sulla pelle) supporti essenziali della persona. Non soltanto in quanto concorrono a determinare identità, appartenenze e memorie (nozioni peraltro sempre in qualche modo “costruite” e che fin dal periodo coloniale si inseriscono in una trama di relazioni ineguali fra Occidente e Africa), così come a negoziare e rinegoziare posizioni e relazioni sociali, ma anche in quanto permettono di accrescere la potenza di agire, la presa sull’esistenza. Una diffusa adesione a quest’ultima prospettiva implica fra le altre cose la presenza in Africa di una particolare accentuazione culturale sull’arte del self-display. Ossia su quelle performance ostentative e agonistiche di corpi e vestiti che, da sempre aperte alle contaminazioni e oggi associate al fenomeno crescente del consumo di stili, nella loro teatralità rimandano ad altre sfere di esperienza legandosi alle tradizionali pratiche ludiche, simboliche e rituali. E ciò specialmente all’interno delle molte ambientazioni africane dove le strategie vestimentarie, pur restando parte integrante di sistemi di senso e di potere di lungo corso dominati tanto da logiche di ostentazione quanto da strategie di rafforzamento, mostrano un dinamismo e una indubbia capacità di sintonizzarsi sul cambiamento. Ne è dimostrazione eloquente l’attuale «ossessione dei segni esteriori di magnificenza» (Daloz 2002), sia tradizionali sia occidentali, dei “big men” nigeriani (re, notabili, leader, boss, e così via), ossessione in parte riconducibile a logiche ancorate nel passato ma che si è andata esasperando ed espandendo per l’allargamento degli spazi di riferimento e di competizione.

Incalzate da un presente in continua trasformazione, le strategie vestimentarie africane rispecchiano gli umori locali, danno delle risposte, innovano, creano una situazione, dei riti. A questo proposito è interessante notare come oggi il corpo si riveli il primo luogo in cui si incarnano le identità prodotte dalle connessioni e dalle tensioni tra mondi locali e più vasti scenari storici, economici, politici; e come, di conseguenza, l’orientamento alla spettacolarizzazione caratteristico della messa in scena competitiva del corpo vestito – predominante negli scenari africani contemporanei non soltanto in Nigeria – sia parte di un processo più ampio e complesso di “estetizzazione del mondo”, per usare le parole di Lipovetsky e Serroy, introdotto dalla globalizzazione. Dal forte radicamento sociale e intensificata dalla molteplicità dei codici vestimentari in gioco (una fantasia accesa caratterizza l’attuale vestire africano improntato a un dinamismo inclusivo di tutti i contrari purché facciano spettacolo), la pratica del dress to impress, vale a dire la particolare ricerca di effetto e di eccesso nelle performance dei corpi vestiti, risponde, ancora una volta, altrettanto a un desiderio di visibilità sociale quanto a un progetto di crescita in potenza che non è esclusivo delle figure del potere. Tutt’altro: anche in condizioni di vita disagiate l’aspirazione all’eleganza diventa sfoggio e può configurarsi come spazio di azione, di compensazione e di rifugio. Basti pensare al noto fenomeno dei sapeurs congolesi e alla loro totalizzante devozione ai prodotti di lusso occidentali: ostentare capi griffati non soltanto assicura agli adepti della “religione” della SAPE (Société des ambianceurs et des personnes élégantes) il piacere appagante di ogni impegnativa conquista, ma risulta di fatto il solo mezzo di riabilitazione sociale a loro disposizione, configurandosi come espressione di volontà e capacità di sopravvivenza.

Foto dal set di An African City, web series ghanese sponsorizzata da vari marchi della moda, seconda stagione.

Foto dal set di An African City, web series ghanese sponsorizzata da vari marchi della moda, seconda stagione.

 

La forte impronta creativa che si manifesta nella SAPE (culto che non comporta certo un’adesione passiva ai capi che si indossano) si può del resto riscontrare nel carattere composito e decisamente vistoso esibito in generale dalla moda urbana, indissociabile dalla strada. Un vero e proprio “teatro” del vestire che, ricco com’è di citazioni e di ambiguità, si potrebbe definire postmoderno nella sua capacità di mischiare, riciclare, incorporare. Il fattore della convivenza dei generi regna anche sulle passerelle del fashion africano ed è particolarmente rilevabile nelle rutilanti sfilate che vanno in scena in tutte le capitali. Nelle più istituzionali settimane della moda – in Nigeria, in Senegal, in Sudafrica – i designer, le modelle e i compratori convergono da tutto il continente e gli stilisti africani che lavorano all’estero spesso ritornano per mostrare le loro collezioni d’ispirazione non necessariamente africana. In un suo recente articolo (25 agosto 2016) comparso sull’International New York Times Whitney Richardson, nel recensire il volume (2016) del fotografo Pers-Anders Pettersson sulla vibrante scena della moda subsahariana, non manca di citare la leggendaria sfilata notturna con novantadue modelle – una per ciascun anno della vita, allora, di Mandela – che si è svolta nel 2011 a Johannesburg e che ha addirittura fermato il traffico sul Nelson Mandela Bridge! La sfilata della “carreggiata trasformata in passerella” di Johannesburg è uno degli oltre quaranta eventi che Pettersson, viaggiando per cinque anni in sedici Paesi subsahariani, ha documentato con immagini che offrono un’inedita visione del continente africano focalizzata sul caleidoscopico universo delle sfilate. Il suo photo book, mirato a mettere in mostra talenti e creativi locali e a documentare l’ascesa dell’industria della moda in Africa, non soltanto coglie la dinamicità, la forza dell’energia creativa e il gusto dell’innovazione che si manifestano ovunque, ma anche ben mette in luce le sottili differenze regionali e culturali di una moda informata ma radicata sul territorio. Per fare solo due esempi, la stilista Deola Sagoe, dell’Africa occidentale, crea abiti contemporanei utilizzando tessuti adire tinti a mano in Nigeria dalle donne yoruba, mentre i gioielli dai grandi elementi ornamentali di Ami Doshi Shah, dell’Africa orientale, fanno riferimento alle radici keniane della stilista. In entrambi i casi il “segno” africano diventa un requisito nelle strategie di marketing sia degli operatori stranieri che degli operatori locali. In effetti è prassi comune fra gli stilisti e i designer africani usare la “tradizione” a fini di incremento economico e rivendicazione identitaria.

In grande effervescenza – crescono di numero e di qualità i giovani talenti che sfidano le debolezze del sistema locale – il campo della moda è indubbiamente un terreno privilegiato per vedere come agiscono insieme globale e locale, individualismo e comunitarismo: i tanti e diversi circuiti del fashion sono oggi tutti, se pure in misura diversa, collegati ai nuovi spazi di comunicazione, scambio e creatività offerti dall’incremento dei flussi globali di capitali, beni, persone, tecnologie. In realtà, è a ben prima del XX° secolo che risalgono i commerci di articolazione locale, regionale e globale che hanno interessato gran parte del continente e che hanno dato l’avvio a contatti e scambi, e quindi a quella circolazione di persone, pratiche, idee e beni materiali che ha contribuito alle creative modalità africane di rivestire i corpi per incrementarne l’agency. Come ci ricorda Amselle, nel continente subsahariano la globalizzazione contemporanea prende le mosse da dispositivi di globalizzazione anteriori. In conclusione: una sostanziosa storia del vestire in Africa c’è e racconta come il continente subsahariano abbia una lunga esperienza di vivaci interazioni fra le pratiche locali del vestire ed elementi dell’abbigliamento di altre culture. E come fra i beni importati da tempo i tessuti occupino una posizione del tutto speciale e per gli effetti a lungo termine della secolare vitalità dei loro commerci e scambi, e per il loro risalto nelle politiche del fashion e dell’abbigliamento sia in Africa, sia fra i neri della diaspora. I quali storicamente hanno utilizzato l’arte performativa del vestirsi come contro-potere (Miller 2009) e oggi, in un percorso di recupero delle proprie radici, acquistano i tessuti africani emblematicamente tradizionali (quali il bogolan del Mali e il kente del Ghana) ormai prodotti lucrativi nel mercato globale.

Bibliografia

J.-P. Daloz, Élites et répresentations politiques. La culture de l’échange inégal au Nigeria, Presses Universitaires de Bordeaux, Bordeaux 2002

G. Lipovetsky, J. Serroy, L’esthétisation du monde. Vivre à l’âge du capitalisme artiste, Gallimard, Paris 2013

M. L. Miller, Slaves to Fashion: Black Dandysm and the Styling of Black Diasporic Identity, Duke University Press, Durham, NC 2009

P.-A. Pettersson, African Catwalk, Kehrer Verlag, Heidelberg 2016