03 dicembre 2009

Disorientati o troppo orientati? Il seminario di formazione di Redattore Sociale

In Media

283250Si è conclusa domenica 29 novembre, a Capodarco di Fermo, la XVI edizione del Seminario di formazione per giornalisti organizzato da Redattore Sociale. Come ogni anno al centro del dibattito sono stati i temi normalmente trascurati dalla cronaca, relegati al margine dai famosi “criteri di notiziabilità” che stabiliscono a priori il potenziale di interesse degli avvenimenti. Si parla di marginalità, zone liminali del quotidiano, si parla di giornalisti, del corretto modo di fare informazione per garantire il basilare diritto di informare ed essere informati nel rispetto dell’altro, della diversità, dell’umanità che tutti accomuna.

Il titolo del seminario “Disorientati. Giornalisti in cerca di bussole per capirci qualcosa” vuole esprimere il senso di disagio spesso vissuto dagli operatori della comunicazione nel nuovo mondo globalizzato, in cui i collegamenti tra causa ed effetto si perdono tra le maglie di reti sempre più confuse e lontane tra loro. C’era un bell’ambiente al seminario, la maggior parte dei partecipanti sono giovani e se questo da un lato fa ben sperare per il futuro dell’informazione, dall’altro solleva una serie di interrogativi un po’ amari circa la mancanza di disorientamento della vecchia e ben più affermata classe di professionisti.

Apre i lavori Don Vinicio Albanesi. La prima giornata, venerdì 27 novembre, gravita attorno al tema della crisi. Crisi economica, “crisi di coscienza e forse di identità”. Il filosofo Fabio Merlini, autore del libro “L’efficienza insignificante”. Saggio sul disorientamento, parla di “temporalità abbreviata” come dimensione attuale in cui si articola il discorso pubblico, una temporalità che non lascia spazio alla critica e alla riflessività necessarie alla produzione di verità accertabili che poggino su una condivisione tra chi produce la notizia e chi la riceve.

L’attuale panorama dell’informazione non consente di soffermarsi sui significati, ma si articola secondo un discorso funzionale chiamato a spettacolarizzare gli eventi e mobilitare l’attenzione secondo i parametri della sensibilità e dell’emozione, veicolando un mondo “sempre più oscillante tra tragedia e commedia”.

Questo punto di vista, che non vuole lasciarsi andare alla stessa logica tragica posta sotto accusa, ma semplicemente creare una maggiore consapevolezza dei processi in atto, non rappresenta nulla di nuovo per chi da anni si occupa di comunicazione e informazione, ma riesce ad evidenziare argomenti noti troppo spesso trascurati dagli addetti ai lavori. Trascurati forse, suggerisce Don Vinicio Albanesi, per mancanza di coraggio che induce a non prendere posizione e assecondare delle logiche superiori che si impongono alla vita dei singoli e delle comunità.

L’attesissimo intervento di Saskia Sassen, teorica della globalizzazione, sembra portare una ventata di freschezza all’interno della sala in cui siamo assiepati. Rifiuta il traduttore e ci espone nel suo italiano spagnoleggiante i due punti centrali su cui crede valga la pena soffermare l’attenzione per capire meglio la realtà in cui ci muoviamo: crisi finanziaria e guerra asimmetrica. Esiste una logica profonda, una sistematicità dietro la crisi economica attuale, dettata dalla speculazione insita nel mondo finanziario.

La Sassen lo sostiene attraverso una serie di dati e grafici che mostrano nel tempo la ciclicità delle crisi finanziarie e forse anche la loro prevedibilità. La teorica olandese ci aiuta a guardare in modo nuovo fenomeni ormai consolidati come il dilagare della violenza nelle città, secondo il quale le lotte tra gang vanno al di là del classico confronto tra criminalità e polizia.

Gli attentati di Bombay, Madrid, Londra, Bali e come questi molti altri, hanno sì una propria specificità, ma si ricollegano tutti alla pratica del warfare, letteralmente “fare la guerra”, in cui il diffuso senso di instabilità viene usato per controllare la popolazione e si istituisce un assioma che contrappone alla sicurezza nazionale l’insicurezza urbana.

La città diviene un elemento strategico nella condizione di guerra asimmetrica e nello spazio urbano gli scontri tra gang e le violenze sempre più diffuse incanalano e riflettono una violenza che è prima di tutto economica e politica. Si delinea “un’epoca di destabilizzazione dei significati in cui le parole sono usate come armi”.

Ci racconta che a New York ci sono dei grandi manifesti per le strade che invitano la popolazione a denunciare: “If you see something tell it. Let us know”, ma non si suggerisce “cosa” esattamente uno debba vedere.

“Ovunque vivere altrove”

Se il tema della parola che colpisce e criminalizza viene introdotto dalla Sassen, rimane comunque trasversale a tutti gli interventi che si susseguono in questi tre giorni di seminario.

La mattinata del secondo giorno prevede la possibilità di partecipare a un workshop su un argomento a scelta tra carcere, psichiatria e immigrazione.

Partecipo al terzo dal titolo Immigrazione: respingere/convivere, condotto da Corrado Giustiniani, inviato de Il Messaggero. Prende per primo la parola Giancarlo Blangiardo, responsabile statistico della Fondazione Ismu di Milano, che illustra attraverso dati e statistiche l’attuale situazione dell’immigrazione in Italia. In particolare l’obiettivo della sua relazione consiste nell’individuare degli argomenti e dei numeri che possano risultare validi sul fronte di una reale convivenza, svincolandosi dalle parole d’ordine che si sono imposte nel dibattito durante gli anni ‘80 del secolo scorso: necessità, etica e convenienza.

Blangiardo vuole sfatare una serie di false credenze sulla presenza degli immigrati nel nostro Paese, date da una visione forse buonista, forse un po’ troppo ottimista, quali l’arresto dell’invecchiamento della popolazione. Egli oppone a questo argomento il fatto che “la bassa fecondità dipende dalla situazione contestuale in cui si è inseriti” una situazione che condizionerà i migranti così come accade oggi con gli Italiani. Un tema molto importante, tra quelli sollevati, riguarda la regolarizzazione della presenza degli immigrati sul territorio italiano.

Si impone la necessità di “regolarizzare l’irregolarità” in maniera progettuale e lineare, evitando il costante ricorso alle sanatorie, i cosiddetti “decreti flussi” che rispecchiano l’atteggiamento emergenziale che continua ad imporsi nel nostro Paese nella disciplina del fenomeno migratorio ormai strutturale della nostra realtà, destinato perciò a crescere e svilupparsi.

Il secondo relatore è il fondatore dell’associazione Asinitas di Roma, si chiama Marco Carsetti e si capisce subito che non parlerà di numeri. Carsetti si occupa del coordinamento delle attività socio-educative con i richiedenti asilo e rifugiati politici e si presenta come un educatore attento alle diverse soggettività e a quel fattore umano generalmente trascurato quando si parla di migranti. La sua associazione opera in due scuole di Roma.

Una di queste è la scuola Carlo Pisacane nel quartiere di Torpignattara, dove nel 2003 nasce il progetto Archivio delle memorie migranti con l’obiettivo di costruire un immaginario comune insieme ai migranti. L’archivio raccoglie le memorie, i racconti dei migranti che son passati e continuano a passare da lì. La scuola è la creazione di un contesto di condivisione in cui si costruiscono relazioni e legami e soprattutto è il luogo in cui “si costruisce un discorso pubblico”, un discorso pubblico in cui manca la condivisione di un immaginario comune con i migranti, manca l’espressione della soggettività di queste persone per un’impossibilità di autonarrazione e autorappresentazione.

Carsetti si sofferma realmente sul punto di vista. Le persone che arrivano qui, fuggendo da paesi in guerra, stremati dalla fame, soffocati dall’assenza di un futuro, dopo mesi per terra e per mare, vengono sbattute in centri sperduti nel nulla “è anche questo un respingimento”. Parla anche attraverso le parole di molti autori, personaggi storici come Biagio Marin, espatriato in Istria durante la II guerra mondiale. I processi della migrazione prevedono la perdita della casa, nel senso inglese di home; disorientamento e doppia assenza per l’essere assenti da dove si era e al tempo stesso da dove si è.

Si tratta della zona liminale del viaggio descritta da Lévi Strauss, in cui l’uomo è invisibile e subisce l’effetto deformante dello sguardo degli altri, della società che per poterlo vedere ricorre all’“etichetta”, una semplificazione accettata anche da chi la subisce per poter essere riconosciuto in quanto soggetto. La parola “dialogo”, lo scambio, il riconoscere nell’altro un elemento centrale e fondante la nostra possibilità di conoscenza può farci uscire da queste dinamiche.

E’ necessario porsi un problema di metodo oltre che di contenuti e nell’articolazione del discorso pubblico diviene fondamentale focalizzare obiettivi e punti di vista, dare i giusti nomi alle cose e scegliere con cura le parole, un limite questo, che è stato sollevato da più punti in relazione agli argomenti più disparati accomunati dall’impossibilità dei soggetti di farsi portavoce di se stessi, scegliendo in quali termini mostrarsi e apparire.

Nel pomeriggio, davanti alla platea riunita al completo, si traggono le fila dei diversi workshop. Sebbene vertano su argomenti molto diversi tra loro, vi è un filo rosso che li unisce e può essere riassunto nell’assenza di una buona e corretta informazione. Emerge l’impossibilità di formulare un discorso condiviso, interno alle istituzioni e alle attuali logiche di discussione proprie dell’opinione pubblica. Seppur all’interno dei diversi universi semantici, tutti gli operatori denunciano la necessità di appellarsi alla violazione dei diritti umani, come se i temi in questione non possano essere affrontati al di là di una retorica della tragedia.

Per un caso fortuito, il direttore di News from Africa, Zachary Ochieng, che avrebbe dovuto prendere parte al dibattito seguente dal titolo Dimenticati. L’Africa delle crisi umanitarie, l’Africa della normalità, non può essere presente. Al suo posto sono chiamati a intervenire due ragazzi somali. Sono due rifugiati politici che hanno affrontato un “viaggio clandestino” di sei mesi per arrivare in Italia. “Il viaggio che si chiama ufficialmente clandestino, io lo chiamo viaggio della speranza, perché speri di arrivare, ma non sai se ci riuscirai”. Hassan si scusa per il suo italiano “appena nato” e inizia a raccontare con precisione e cognizione di causa le vicende politiche che hanno devastato la Somalia negli ultimi 20 anni, un paese in guerra, in uno stato di anarchia totale, in cui quando esci di casa non sai se tornerai sulle tue gambe.

Alla domanda “perché siete partiti?” la tristemente nota e ovvia risposta “Non c’era scelta, era una necessità”. I due ragazzi che parlano hanno 20 e 21 anni, raccontano di una vita in attesa, una vita senza documenti perché non c’è alcuna autorità per cui la loro identità possa avere un senso, una vita che avrebbero voluto trascorrere nel loro paese con la loro famiglia, ma che ha dovuto seguire un corso diverso per poter continuare. Senza toni tragici parlano di una realtà molto lontana da noi che tragicamente prende corpo nelle nostre coscienze.

Basta poco, basta chiamare le cose col loro nome per restituirle all’ordine del reale in tutta la loro dignità.

Giulia Gezzi

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