21 marzo 2014

Celebriamo la Giornata Internazionale per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali

Da tempo il termine razza è praticamente scomparso dalla terminologia scientifica perché non è applicabile a una specie geneticamente omogenea come quella umana. Gli studi genetici hanno infatti dimostrato l’assenza di veri e propri confini biologici tra le diverse popolazioni, ma eliminare il fondamento scientifico del concetto di razza non è stato sufficiente a sbaragliare il razzismo che dal piano biologico si è spostato a quello culturale. La supposta superiorità dell’uomo bianco, non più dimostrabile a livello genetico, è stata quindi sbandierata in nome del differente grado di sviluppo a cui la “civiltà bianca” sarebbe arrivata rispetto alla “civiltà nera”. Ma la storia ha già insegnato che percepirsi superiori genera mostri.

foto di Maurizio Mori

Oggi, 21 marzo, si celebra in tutto il mondo la Giornata Internazionale per l’Eliminazione delle Discriminazioni Razziali, indetta dall’ONU in ricordo del massacro di Sharpeville del 1960, la giornata più sanguinosa dell’apartheid in Sudafrica: durante una pacifica manifestazione di protesta contro l’introduzione dell’Urban Areas Act, il provvedimento che imponeva ai cittadini neri di esibire uno speciale permesso nelle aree riservate ai bianchi, la polizia sudafricana aprì il fuoco sulla folla dei dimostranti, uccidendo 69 persone. Il comportamento della polizia venne denunciato da una speciale commissione d’inchiesta come eccessivo impiego della forza contro una folla disarmata e I’operato del Governo sudafricano venne ufficialmente condannato dalle Nazioni Unite.

In occasione di questa ricorrenza l’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità, organizza eventi in tutta Italia e a Torino si svolge il convegno centrale dell’intera Settimana d’Azione contro il Razzismo ovvero la Presentazione nazionale dello Shadow Report 2012-2013 della Rete Europea contro il razzismo (ENAR), a cura del CIE, Centro d’Iniziativa per l’Europa del Piemonte, che vedrà la partecipazione del Presidente del Parlamento Europeo Martin Schulz.

Buona giornata a tutti, all’insegna del colore arancione!

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14 marzo 2014

Indossa qualcosa di arancione: inizia la settimana d’azione europea contro il razzismo

In occasione della giornata mondiale contro il razzismo che si celebra il 21 marzo in ricordo del massacro di Sharpeville (Sudafrica, 1960), da domani inizia la Settimana di azione europea contro il razzismo che durerà fino a domenica 23 marzo. L’evento è coordinato da UNITED network che raggruppa più di 550 organizzazioni appartenenti a 48 paesi europei al fine di combattere i nazionalismi, il razzismo, il fascismo e supportare i migranti e i rifugiati per favorire l’interculturalità. In Italia è l’UNAR, l’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali del Dipartimento per le Pari Opportunità, a organizzare la Settimana di azione contro il razzismo, che quest’anno è alla sua X edizione. Lo slogan scelto è “Se chiudi con il razzismo ti si apre un mondo” ed è volto a promuovere la ricchezza di una società multietnica e multiculturale. Durante la settimana sono previste iniziative nel mondo della scuola, dell’università, dello sport e della cultura con l’obiettivo di coinvolgere I’intera opinione pubblica.

Come segno di adesione alla campagna l’UNAR chiede di esibire il colore arancione (colore dell’UNAR). Chi lo vorrà potrà indossare un capo di abbigliamento o appendere un lenzuolo alla finestra di colore arancione. I Comuni, ad esempio, potranno utilizzare lampadine arancioni per i lampioni delle piazze principali delle città, illuminare così i monumenti più importanti, esporre una bandiera sul Palazzo comunale o portare avanti qualsiasi altra iniziativa, sempre all’insegna del colore arancione. Inoltre è già attiva la campagna Colora di arancione il tuo Instagram, in collaborazione con Instagramers Italia. Per partecipare è sufficiente avere un account attivo su Instagram e scattare una foto che contenga un elemento arancione e in grado di veicolare un messaggio di integrazione, utilizzando gli hashtag #coloradiarancione, #igersitalia e #unar.

Segnaliamo infine due iniziative promosse dal Distretto Pianura Est  in collaborazione con la Coop. Lai-momo: sabato 15 marzo, alle ore 14:30, il laboratorio “Antidiscriminazione: sguardi a confronto in cerca di azioni” a Castel Maggiore presso la Sala Polivalente Pier Paolo Pasolini in Piazza Amendola 1 e domenica 23 marzo, alle ore 15:00, “Biblioteca Vivente” a Pieve di Cento presso l’Androne del Palazzo Comunale in Piazza Andrea Costa 17. Questi incontri sono organizzati nell’ambito della quarta edizione della “Comunità che cambia”, rassegna di incontri pubblici dedicata al fenomeno migratorio nel Distretto Pianura Est.

Potete scaricare il pdf al seguente link:

http://bit.ly/1kLNtwi

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07 marzo 2014

Nass Belgica: la mostra dedicata alla comunità marocchina in Belgio, fino al 27 aprile a Bruxelles

Su iniziativa dell’Università libera di Bruxelles è stata inaugurata il 21 febbraio Nass Belgica, la mostra itinerante dedicata alla comunità marocchina in Belgio, in partenariato con Le Botanique e l’Università di Liegi. L’espressione Nass Belgica significa letteralmente “la gente del Belgio” in dialetto marocchino e dà il nome a questa mostra che celebra l’anniversario della firma dell’accordo belga – marocchino del 17 febbraio 1964 relativo all’occupazione di lavoratori marocchini in Belgio. L’obiettivo è quello di aumentare la consapevolezza del contributo che gli immigrati marocchini e i loro discendenti hanno dato alla storia del Belgio, al suo sviluppo economico e sociale e alla sua vita culturale.

La mostra è arricchita da testimonianze pubbliche e archivi familiari, fotografie, disegni e altri documenti e incorpora frammenti di vita, immagini di ieri e di oggi, testi, spezzoni di film, mappe, manifesti, manufatti e dispositivi interattivi. Ragione ed emozione sono i due poli attorno ai quali si articola l’esposizione che fa appello allo humor attraverso brevi video comici, sketch e spezzoni di spettacoli. L’intento è quello di essere uno strumento per decostruire gli stereotipi da entrambe le parti, sia quelli della società d’accoglienza, sia quelli della comunità marocchina, così da promuovere il valore e la ricchezza del vivere insieme.

La mostra è aperta fino al 27 aprile presso Le Botanique, rue Royale 236, Bruxelles.

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28 febbraio 2014

Quando l’immigrazione diventa schiavitù. Le lavoratrici domestiche in Libano

Siamo abituati a pensare al lavoro di cura come appannaggio di donne provenienti dall’est Europa che in Italia cercano il modo per guadagnare denaro e inviare rimesse a casa. Ma ci sono ben altre realtà da tenere in considerazione. Il Libano, per esempio, è meta di tante lavoratrici domestiche provenienti da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh e Filippine. Come vivono queste donne? Quali sono le loro condizioni lavorative? Che diritti vengono loro riconosciuti? A questi interrogativi dà risposta l’articolo When Immigration Becomes Slavery. Migrant Housemaids in Lebanon, the Normalization of the Unusual, scritto da Omar Bortolazzi e pubblicato sul numero 79 di Africa e Mediterraneo, di cui qui vi proponiamo l’abstract in italiano.

Beirut 2010. Foto di Michela Bignami

Quella libanese è una società ossessionata dalla logica di classe e le lavoratrici domestiche migranti sono spesso usate come strumento per ostentare benessere da parte di coloro che non potrebbero mai permettersi il lusso di una cameriera autoctona. Le domestiche immigrate costano meno e soprattutto non hanno diritti, il razzismo e l’estrema severità nei loro confronti sono giustificati a livello sociale, e questo le pone in una condizione di completa sudditanza nei confronti dei loro datori di lavoro. Secondo le statistiche ufficiali 120.000 donne straniere lavorano come domestiche in Libano, alle quali si devono aggiungere le migranti irregolari. Provengono soprattutto da Sri Lanka, Etiopia, Bangladesh, Filippine. La predominanza dello Sri Lanka come Paese di origine ha reso il termine “srilankese” sinonimo di “lavoratrice domestica” nell’arabo libanese colloquiale.

Vige il sistema della kafala, ovvero della sponsorizzazione, in base al quale la regolarità della posizione delle lavoratrici dipende completamente dalla famiglia nella quale sono impiegate; perdere il lavoro o scappare significa diventare illegali. Le donne che abbandonano la casa nella quale lavorano molto spesso sono costrette a pagare per la restituzione del passaporto. Infatti, nel 99% dei casi, il documento viene loro confiscato della famiglia che le assume. Secondo testimonianze raccolte da Human Rights Watch, molto spesso le lavoratrici vengono confinate in casa e i loro contatti con l’esterno sono ridotti al minimo, non viene dato loro il giorno libero per paura che possano rimanere incinte e che si coalizzino con altre domestiche per pretendere salari più alti e condizioni di lavoro migliori.

Tanti sono i casi di donne che subiscono violenze e abusi perché è pratica diffusa maltrattare le domestiche nella convinzione che così facendo diventino più obbedienti e servili. Questa è la condizione della maggioranza delle donne che vivono con la famiglia per la quale lavorano, migliore è la condizione di quelle che finita la giornata lavorativa tornano alle loro case. Inutile denunciare le aggressioni, la polizia non fa altro che aggiungere ulteriori violenze a quelle già subite e molto spesso forza le donne a confessare reati non commessi come il furto, in modo da incarcerarle. Tutti gli sforzi per introdurre una nuova legge che regolamenti la presenza e il lavoro delle lavoratrici domestiche sono falliti e al momento non ci sono le condizioni per cui la loro situazione possa migliorare nonostante l’impegno di tante NGO.

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20 febbraio 2014

I nuovi italiani sono già qui: diamo loro una voce

Lunedì 17 febbraio Africa e Mediterraneo ha firmato il protocollo per la comunicazione interculturale della regione Emilia Romagna. Iniziative di media education, ricerche specifiche e un coordinamento tra media ed enti pubblici e privati impegnati nella comunicazione relativa all’immigrazione saranno i principali risultati portati dal protocollo. L’imminente campagna elettorale per le europee probabilmente sarà condotta anche facendo leva sui peggiori sentimenti di paura del diverso, chiusura all’Europa delle culture, razzismo…

E’ meglio lavorare già fin d’ora in senso contrario, ed essere comunque legati da relazioni e conoscenza reciproca.

Ecco un articolo dell’assessora regionale Marzocchi sul protocollo regionale.

I NUOVI ITALIANI SONO GIÀ QUI: DIAMO LORO UNA VOCE

Ormai non possiamo più aspettare per fare rete. Sono quasi 550 mila i residenti di origine straniera nella nostra regione, il 12,3% della popolazione totale. Una media in linea con quella europea e superiore di 4 punti a quella nazionale. Arrivano da Romania, Marocco, Cina, Ucraina, Filippine, Nigeria, Albania, solo per citare alcuni Paesi. Ma tutti hanno scelto l’Emilia-Romagna per lavorare, vivere, studiare, mettere su famiglia. Molti sono nati qui. Li incontriamo tutti i giorni sull’autobus, per la strada, al bar o a fare la spesa, a scuola o al cinema.

Continuiamo a vederli poco, invece, sui mezzi di informazione locale. Quando si parla di immigrazione o di diritto d’asilo in tv, alla radio, sui giornali o in Rete, difficilmente capita di ascoltare i diretti interessati. Quando si parla di loro o di fatti che li riguardano, viene spesso usato un linguaggio che contribuisce a diffondere pregiudizi, stereotipi e false rappresentazioni.

Per questo non possiamo più aspettare a dar loro una voce. E fare rete, intrecciare storie e competenze, è la nostra unica e grande risorsa.

Usare parole come “clandestino” o “vu’ cumprà”, ricorrere a termini che richiamano catastrofi naturali come “tsunami umano” quando si parla di sbarchi sulle nostre coste, far riferimento alla provenienza degli autori di fatti di cronaca anche quando non è indispensabile ai fini della notizia sono tutte azioni che contribuiscono a far apparire queste persone come una minaccia.

Il linguaggio ha un significato, un peso. E la comunicazione ha un ruolo fondamentale nell’accompagnarci verso un modello culturale e sociale rinnovato, aperto e coeso in cui anche chi è arrivato da lontano possa sentirsi a casa.

È partendo da questi presupposti che nasce il nuovo Protocollo di intesa regionale sulla comunicazione interculturale sottoscritto nei giorni scorsi in Regione da una trentina di firmatari tra istituzioni, agenzie di stampa, onlus, ong, centri interculturali e altri soggetti pubblici e privati.

L’abbiamo chiamato Ad altra voce perché gli obiettivi che ci siamo posti come Regione sono quelli di migliorare la qualità dell’informazione, stimolare la comprensione delle dinamiche interculturali nella società dell’informazione e promuovere il protagonismo dei nostri concittadini di origine straniera. Perché l’espressione “nuovi italiani” acquisti finalmente un significato reale.

Teresa Marzocchi – assessore politiche sociali – Regione Emilia-Romagna

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14 febbraio 2014

Richiedenti asilo e rifugiati in Italia. Rilfessioni sulle politiche di accoglienza

In un momento di flussi migratori via mare così intensi – ricordiamo che tra il 5 e 6 febbraio al largo di Lampedusa la marina militare ha soccorso 1.123 migranti provenienti dal nord Africa – è utile riflettere sulle politiche d’accoglienza italiane. A questo proposito vi proponiamo un estratto dell’articolo Riflessioni sull’integrazione. Italia Terra d’asilo, Parma 30 novembre, scritto da Michela Bignami e pubblicato sul numero 79 di Africa e Mediterraneo, in cui l’autrice rilegge quant’è emerso dal dibattito del convegno nazionale “Italia terra d’asilo. Accoglienza, assistenza, integrazione dei rifugiati: norme europee, pratiche territoriali innovative e proposte per un nuovo sistema nazionale condiviso”, che si è svolto a Parma il 30 novembre 2013.

Foto di Owanto. Où Allons-Nous? (Where are we going?), 2009

In Italia il dibattito sui rifugiati si limita, spesso, a un’analisi dei sistemi di ricezione e di accoglienza dei richiedenti protezione internazionale o del loro percorso giuridico, ma non si occupa della fase successiva all’ottenimento dello status. Tuttavia, una volta ottenuta una forma di protezione, che sia lo status di rifugiato, la protezione sussidiaria o il permesso umanitario, queste persone si ritrovano in un limbo amministrativo e sociale. Benché titolari a tutti gli effetti di diritti specifici, non riescono a esigerli trovandosi dispersi in un contesto a loro ancora estraneo. Stime di uno studio condotto dall’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione) nel 2011 mostrano come sia esigua la percentuale di titolari di protezione, 32,4%, che dopo essere passati per un percorso di prima accoglienza abbiano poi avuto la possibilità di usufruire di percorsi di seconda accoglienza. Occorre sottolineare che non tutti i richiedenti asilo hanno accesso a posti nel sistema di prima accoglienza, SPRAR – CARA – CDA. Se si considera che i posti disponibili nello SPRAR per il 2013 erano 3.000, ai quali vanno sommati i posti nei CARA e nei CDA, 4.880, si arriva a un totale di 9.880 posti disponibili a fronte di 39.798 persone arrivate in Italia al 30 novembre 2013, e di 10.905 domande di asilo solo nei primi sei mesi del 2013.

È proprio sull’integrazione e la seconda accoglienza che si è concentrato il dibatto del convegno nazionale “Italia terra d’asilo. Accoglienza, assistenza, integrazione dei rifugiati: norme europee, pratiche territoriali innovative e proposte per un nuovo sistema nazionale condiviso”, svoltosi a Parma il 30 novembre 2013. La necessità di un dibattito approfondito e strutturato sull’integrazione dei rifugiati e titolari di protezione sussidiaria è nata dal recente recepimento della direttiva europea 2011/95/UE sull’integrazione attraverso la legge 96/2013. Questo ha permesso agli interlocutori della società civile e delle organizzazioni internazionali di proporre al governo pareri per un’attuazione della direttiva che garantisca ai rifugiati e titolari di altre forme di protezione l’accoglienza in quanto diritto.

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07 febbraio 2014

Scatti dal confine: la mostra conclusiva di Screens curata da Africa e Mediterraneo

Nel 2012 nel mondo erano 45 milioni le persone sfollate, rifugiate o richiedenti asilo. Di tutte le richieste di asilo a livello mondiale, una su tre è stata presentata a uno dei 27 stati della UE, che si sono così trovati a dover affrontare l’arrivo di persone in fuga da conflitti e insicurezza. Il fotografo congolese Badouin Mouanda ha visitato tre zone di Italia (Sicilia), Malta e Ungheria, lavorando con fotografi e operatori locali per rappresentare l’accoglienza dei richiedenti asilo e l’integrazione dei migranti economici. La vita nei centri di accoglienza e detenzione dei rifugiati, le operazioni di soccorso in mare, la vita dei migranti che si sono inseriti nel lavoro: questi i temi delle foto scattate e selezionate in questo workshop, ora presentate nella mostra Snapshots from the border, a Bruxelles e nei tre luoghi in cui sono ambientate.

foto di Badouin Mouanda

Africa e Mediterraneo con la collaborazione di Afrique in visu, Collective Génération Elili e Pentaprisma Fotografia inaugura a Bruxelles martedì 11 febbraio “Snapshots from the border”, la mostra prodotta come parte del progetto europeo “Screens – Southern Visions of the Millennium Development Goals”. Il progetto coinvolge aree di confine dell’Unione Europea, rispettivamente Italia, Malta e Ungheria, tutte interessate dal fenomeno dei rifugiati e dei richiedenti asilo. Le tre città partner di Vittoria, Siġġiewi e Màtèszalka, in qualità di rappresentanti dei rispettivi paesi, assieme all’associazione Africa e Mediterraneo hanno deciso di ritrarre i propri territori raccogliendo fotografie di confini d’acqua (mari e fiumi), rifugiati, richiedenti asilo e migranti.Si tratta dell’evento conclusivo del progetto Screens che ha cercato di valorizzare il punto di vista del sud del mondo riguardo agli Obiettivi di sviluppo del millennio che tutti i 191 stati membri dell’ONU si sono impegnati a raggiungere per l’anno 2015, ovvero:

1. Sradicare la povertà estrema e la fame

2. Rendere universale l’istruzione primaria

3. Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne

4. Ridurre la mortalità infantile

5. Migliorare la salute materna

6. Combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie

7. Garantire la sostenibilità ambientale

8. Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo.

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30 gennaio 2014

Lavoratrici domestiche migranti: la globalizzazione del lavoro di cura

Badanti, assistenti familiari, domestiche, questi sono i ruoli ricoperti dalla stragrande maggioranza delle donne immigrate lavoratrici. Figure diventate indispensabili per tante famiglie italiane, pilastri su cui poggia il difficile lavoro di cura nei confronti degli anziani di casa. Per approfondire questo tema presentiamo qui un estratto dell’articolo Donne migranti e cura delle persone anziane: un progetto di sviluppo di comunità, scritto da Paolo Ballarin e Tatiana Di Federico e pubblicato sul n. 79 di Africa e Mediterraneo in un dossier dedicato interamente al tema “Donne nella migrazione”.

Laboratorio di espressione artistica con donne migranti. Calderara di Reno, giugno 2008. Foto di Gail Pomare

In Italia negli ultimi anni si registra una presenza crescente di donne migranti, arrivate non solo attraverso i ricongiungimenti familiari, ma anche sole e con motivazioni legate al lavoro. Nel 2008 le donne migranti rappresentavano il 50,8% della popolazione straniera regolarmente residente in Italia, nel 2012 sono diventate il 53,1%. La femminilizzazione della migrazione ha un carattere internazionale e interessa tutti i movimenti migratori, come afferma anche il Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione, secondo il quale mai come negli ultimi 50 anni le donne hanno fatto parte di tale fenomeno. Dal Dossier Statistico Idos 2013 emerge un altro dato significativo: nel 2012 sono stati rilasciati il 27% in meno di nuovi permessi di soggiorno rispetto al 2011, ma questo andamento riguarda più gli uomini che le donne. Gli uomini hanno avuto un calo del 33%, le donne del 19,5%, rappresentando nel 2012 il 48,7% degli ingressi. […]

L’esperienza della migrazione e la costruzione di una nuova vita lontana dal proprio Paese di origine è profondamente diversa per uomini e donne e mette in campo bisogni e priorità differenti. Dal punto di vista di genere, l’analisi delle migrazioni delle donne che svolgono il lavoro di assistenti familiari evidenzia tre importanti aspetti: la globalizzazione del lavoro di cura, per cui gli stili di vita del cosiddetto “Primo Mondo” sono resi possibili da un trasferimento su scala globale delle funzioni associate al ruolo tradizionale della moglie – ovvero la cura dei figli e degli anziani, la gestione della casa – dai Paesi poveri a quelli ricchi; il care drain e l’esperienza della maternità a distanza, che porta le famiglie migranti a diventare una formazione sociale fluida e in continuo movimento. Le madri partono, questo genera forme di delega, di riorganizzazione dei legami familiari, famiglie transnazionali caratterizzate da profonde sofferenze e sacrifici, che talvolta nemmeno i ricongiungimenti familiari riescono a sanare. L’incontro tra madri e figli o tra coniugi dopo anni di separazione può rivelarsi infatti carico di tensioni e delusioni e al tempo stesso rischia di accentuare i conflitti rispetto a come generi e generazioni negoziano i propri ruoli e responsabilità; l’importanza delle rimesse economiche e sociali delle donne migranti, che sono la seconda fonte di finanziamento dall’estero per i Paesi in via di sviluppo, e sono usate per le necessità quotidiane, l’assistenza sanitaria e l’istruzione.

Oltre alle rimesse economiche, sono da considerare anche le cosiddette rimesse sociali, ovvero il fatto che le donne migranti inviando denaro trasmettono una nuova definizione di cosa significhi essere donna, con i conseguenti rischi di creare conflitti tra generi o generazioni, come detto in precedenza. Questo incide sul modo in cui le famiglie e le comunità considerano le donne ed è un fattore molto forte di empowerment per loro stesse e per le altre che rimangono nel Paese di origine.

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20 gennaio 2014

Donne nella migrazione: il nuovo numero di Africa e Mediterraneo

È uscito il numero 79 di Africa e Mediterraneo con un dossier dedicato alle donne migranti. Pubblichiamo qui un estratto dell’editoriale “La pietra d’angolo”, scritto dalla Direttrice Sandra Federici.

Una donna con i propri figli all'interno di una tenda comune in un campo profughi Saharawi. Foto di Paolo Brutti.

La questione migratoria in Italia e in Europa è stata, in passato, letta principalmente attraverso una lente maschile, trascurando la dimensione femminile o relegandola a un ruolo passivo e subalterno: le donne migranti entravano nella discussione accademica in quanto mogli, madri, figlie di uomini migranti. Ora, negli studi sull’immigrazione, grazie anche all’apporto di altre discipline, in particolare dei gender studies, il genere è arrivato a occupare un rilievo non secondario. Sono numerose le ricerche che applicano questo approccio ai vari aspetti della migrazione, mettendo in luce il fatto che sempre più le donne si spostano indipendentemente dal proprio nucleo familiare, che nel percorso migratorio le donne risultano capaci di costruire difficili relazioni transnazionali e mantenere i piedi in due mondi, che è con le donne che è opportuno lavorare per ricostruire le relazioni e mettere in moto il processo circolare e reciproco della convivenza.

E’ stato rilevato che questa attenzione al genere potrebbe essere dovuta anche alla presenza negli studi sull’immigrazione di un grande numero di studiose; in ogni caso, rileviamo che al lancio del nostro appello a ricevere proposte per il dossier hanno risposto quasi esclusivamente donne, alcune ricercatrici, altre, la maggior parte, operatrici attive in progetti sociali, culturali, sanitari indirizzati a donne migranti, che hanno colto l’occasione di condividere con gli altri una riflessione sulla loro esperienza.

In Italia nel 2012 le donne erano il 53,1% del totale degli stranieri regolarmente residenti in Italia (Immigrazione Dossier Statistico IDOS/UNAR, 2013) e a livello europeo esse rappresentavano il 48,71% (Eurostat) del totale dei flussi migratori del 2011. Queste donne sono lavoratrici, studentesse, professioniste, madri di famiglia che fruiscono di servizi, intessono relazioni e negoziano quotidianamente il loro ruolo di genere in bilico tra vecchie e nuove identità. A volte sono persone in difficoltà che stanno vivendo percorsi di isolamento, sfruttamento, esclusione, violenza. […]

Napoli, Foto di Roberto Faidutti.

In questo dossier sono consegnate, da parte di chi pratica e studia il lavoro sociale partendo dalla prospettiva di genere, numerose testimonianze dirette delle donne immigrate. L’ascolto dell’altra in un rapporto paritetico è possibile se viviamo la consapevolezza della “parzialità” del nostro punto di vista, della necessità di comprendere ogni percorso individuale nella sua specificità e senza imprigionarlo in categorie universali, del fatto che il concetto-prigione dell’identità non è applicabile a soggetti che sono il risultato di un insieme di esperienze, saperi e poteri. Le donne sono la pietra d’angolo su cui si costruisce la convivenza: la loro forza e autonomia è la variabile che determina l’integrazione dell’intero nucleo familiare. E anche quando sono sole, separate dalle famiglie, esse si mostrano maestre della transnazionalità delle famiglie, del welfare, del lavoro. La dimensione della relazione è vitale, e se le difficoltà degli spostamenti e degli incontri portano a vivere una chiusura, uno scacco, essa va ricostruita, segnalando la possibilità di una relazione nuova, da vivere nella consapevolezza del proprio valore, della propria capacità di essere ponte tra culture, dell’efficacia potente dell’aiuto reciproco tra donne.

Sandra Federici

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20 dicembre 2013

La moda in Africa: la bellezza come strategia di riscatto sociale

La moda africana è un fenomeno complesso che andrebbe analizzato attraverso una prospettiva antropologica in modo da cogliere il significato degli usi sociali del corpo e degli ornamenti. Il progetto Ethical Fashion Initiative (EFI) dell’International Trade Centre sembra muoversi proprio in quest’ottica portando case di moda o di distribuzione europee a produrre in Africa presso comunità svantaggiate per favorire l’empowerment femminile e dare maggiori opportunità all’artigianato africano. Per saperne di più vi presentiamo qui un estratto dell’articolo L’Ethical Fashion Initiative (EFI): conversazione con Simone Cipriani a cura di Giovanna Parodi da Passano pubblicato sul numero 78 di Africa e Mediterraneo.

Vivienne Westwood clutch detail in production, Ethical Fashion Initiative. Courtesy of ITC

Che il futuro della couture sia in Africa è opinione condivisibile senza esitazioni da chi, come me, ha una qualche esperienza di ricerca sul terreno in Africa occidentale. Vale a dire in società dove nel gioco delle apparenze – molto presente nelle culture locali come del resto, più in generale, nella maggior parte delle culture dell’Africa subsahariana – la performance del corpo vestito tradizionalmente assume forme di assoluta rilevanza e significatività. Con una tale enfasi sull’abito e sull’ornamento da far ritenere che il primato nel culto della bellezza e dell’eleganza appartenga già alle civiltà africane.

Se è vero infatti che le società mirano tutte alla gestione ottimale del corpo sul mercato dei segni, è in special modo nei mondi africani che vestiti, tessuti, monili, acconciature e marchi servono a mettere il corpo in posizione di centralità e a iscrivere l’individuo nel discorso sociale. In effetti risultano sorprendenti, perlomeno al nostro sguardo di occidentali, le tante e inventive modalità, dal forte radicamento sociale, di abitare il proprio corpo abitando i propri vestiti che animano i teatri della quotidianità africana.

Il fatto è che in Africa l’eleganza esibita è vissuta come esigenza e come forza: l’abito elegante reinstalla i corpi in se stessi, dona loro pienezza e coerenza, li reinveste del loro potere d’azione e d’emozione. In altre parole, il corpo potenziato in bellezza non solo è fonte di soddisfacimento estetico, e in qualche modo etico, ma si configura come un vero e proprio traguardo di vita, come strategia di rafforzamento e di sopravvivenza in contesti di competizione o ancora, specie in situazioni di marginalità, come riscatto esistenziale. […]

Nell’odierna ossessione per la moda che trionfa sul continente traspare senza dubbio un magmatico immaginario collettivo asservito a logiche di ostentazione. Il peso del fashion nell’arena sociale (e anche in quella politica) implica questo orientamento esasperato allo sfoggio vestimentario, senza tuttavia spiegare del tutto la dimensione del fenomeno. Non di rado infatti il bisogno di apparire eleganti, di vestirsi all’ultima moda, viene declinato in comportamenti talmente estremi da portare ancora una volta a chiedersi da quale concezione del potere attribuito alla spettacolare messa in scena di un corpo addobbato (per essenza quindi culturale) emerga il loro prodursi, indipendentemente dai modelli culturali di cui sono veicolo.

In conclusione, per dirla alla maniera antropologica, la moda in Africa si presenta quale “fatto sociale totale”, ossia è una materia da affrontare come qualcosa di estremamente complesso, imbrigliato nei processi storici locali, legato agli usi sociali del corpo e calato nella contemporaneità.

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