10 gennaio 2013

Centro Frantz Fanon sfrattato!

ll Centro Frantz Fanon, una delle strutture più conosciute per quanto riguarda l’etno-psichiatria in Italia, rischia di chiudere i battenti.

Sin dalla sua fondazione, a Torino nel 1996, è sempre stato un punto di riferimento per chiunque si occupasse di temi come salute, cultura e migrazioni, soprattutto avendo sviluppato nel tempo molteplici interventi clinici nel campo della salute mentale dei migranti, seguendo e curando oltre 1600 pazienti, alcuni dei quali affetti da gravi patologie.

Il Centro, da più di dieci anni ospite di una Asl torinese, ha da poche settimane appreso che dal 15 gennaio 2013 cesserà il contratto d’affitto fra l’ASL e il proprietario dei locali dove attualmente il Centro opera e che dovrà dunque trovare una nuova sistemazione.

Nonostante manchino soltanto pochi giorni, nonostante la cifra irrisoria dell’affitto e nonostante le ripetute richieste da parte del Centro, nessuno dell’ASL si è fatto vivo e non si sa ancora nulla riguardo al futuro della struttura.

Sul sito dell’Associazione Frantz Fanon potete scaricare l’appello integrale e leggere tutti i dettagli della notizia.

Segnaliamo inoltre il n.64 “Medicina e migrazione” della nostra Rivista che, tra le altre cose, si è occupato proprio di etno-psichiatria.

Immagine allegata (“The Healers: Frantz Fanon,” 2009, Rudy Shepherd) di START Gallery

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17 maggio 2011

I Migrant Domestic Workers in Europa e i meccanismi di riconoscimento e protezione

Abbiamo partecipato due settimane fa ad una tavola rotonda a Bruxelles organizzata dalla rete di ONG “SOLIDAR”, dal titolo: “Migrant domestic workers: from modern-day slavery to equal pay”. L’intento dell’incontro era quello di riunire insieme personalità politico istituzionali, e membri della società civile che si occupano di queste tematiche, per collaborare insieme allo scopo di creare un contesto di maggiore consapevolezza sulla situazione dei lavoratori domestici migranti in Europa e sulle connessioni con il mercato del lavoro, le politiche migratorie e le questioni di genere, e per dare maggiore diffusione all’iniziativa dell‘Organizzazione Internazionale del Lavoro per la promozione e la ratifica di una Convenzione (ILO Convention on Decent Work for Domestic Workers).

Al giorno d’oggi il lavoro domestico rappresenta nella globalità del mercato del lavoro una fetta abbastanza importante, essendo la fonte di reddito di milioni di persone, in maggioranza donne e migranti. Nei paesi industrializzati, infatti, il lavoro domestico rappresenta il 5-9% di tutti i lavori.

In Europa negli ultimi decenni si è assistito ad una crescente espansione del settore, espansione che non va analizzata come fenomeno a sé stante ma piuttosto come riflesso e conseguenza dei cambiamenti socio-economici globali.
Va considerata innanzitutto la relazione tra lavoro domestico, lavoro in nero e immigrazione irregolare, che è abbastanza complessa. In generale, mentre la migrazione viene comunemente intesa come causa di crescita del lavoro informale, sta diventando invece chiaro che l’esistenza di un mercato del lavoro informale sia al contrario una spinta verso la migrazione, questo ancor di più nell’area del lavoro domestico. Questo infatti è un lavoro molto flessibile, che si basa su un rapporto di fiducia reciproca tra il lavoratore e il suo assistito, e in cui sono spesso gli stessi datori di lavoro ad alimentare l’informalità di questo mercato, cercando di sfuggire alla sua burocrazia, sebbene talvolta vengano arginati dalle leggi sull’immigrazione.
Per molti migranti che sono a vari livelli irregolari (dalla documentazione, alla condizione abitativa), il lavoro domestico più che una scelta reale è una necessità, dal momento che per loro è troppo difficile entrare nel classico mercato del lavoro, e addirittura una lunga permanenza nel mercato informale può diventare poi via di accesso per la regolarizzazione amministrativa.
Nell’Europa del Nord, dove lo stato riesce ad agire in modo incisivo in materia di protezione e assistenza nei confronti dei cittadini, la presenza dei migrant domestic workers ha dati praticamente insignificanti se comparati a quelli degli stati dell’Europa del Sud. In alcuni stati infatti la richiesta di lavoro domestico migrante è messa in relazione a recenti tagli alle spese in materia di welfare e servizio pubblico (e alla privatizzazione e liberalizzazione del settore assistenziale). Gli altri fattori che concorrono alla sua crescita sono poi la progressiva e sempre più massiccia inclusione delle donne nel mondo del lavoro e l’invecchiamento della popolazione.
Così il lavoro domestico migrante cresce sempre di più allargando anche il raggio delle sue competenze, dalla cura di bambini e anziani, alla manutenzione di case e giardini.
Eppure, pur avendo un forte impatto sulla ricchezza e sul benessere europeo, questi lavoratori continuano a rimanere avvolti nell’invisibilità, e non solo perché il loro luogo di lavoro è una casa, ma anche perché spesso non vengono inclusi nell’immaginario dei lavoratori, quindi non vengono riconosciuti e sono spesso privati di qualsiasi forma di diritti e protezione sociale.
Per il lavoro domestico infatti non esiste alcun grande sindacato, né alcuna convenzione di riconoscimento e regolamentazione. Oltre all’informalità e alla sommersione, la grande problematica legata al lavoro domestico rimane quella della violazione diffusa dei diritti umani e del lavoro, problematica comune a numerosi  lavoratori che accettano una relazione lavorativa precaria e irregolare e una vita vissuta ai margini della povertà.

La maggior parte dei domestic workers sono migranti, e la maggior parte di questi sono donne. Questo finisce spesso per esporle a doppie o multiple forme di discriminazione: di genere e razziale. La mancanza di consapevolezza e di riconoscimento dei diritti dei lavoratori domestici da parte dei governi, datori di lavoro e lavoratori stessi contribuiscono ulteriormente al loro sfruttamento, e il  fatto che molto spesso si possano instaurare rapporti di familiarità, non deve allontanare dall’idea che essi siano comunque sottoposti a privazioni dei diritti come lavoratori e persone.
Molte delle lavoratrici domestiche arrivano in Europa col desiderio di fuggire da situazioni di difficoltà economiche in patria, ma diventano vittime di un paradosso: se  con il loro lavoro rendono altre donne libere di poter andare al lavoro lasciando i propri figli a casa, loro non sono altrettanto libere. E il numero eccessivo di ore di lavoro, la sensazione che esso spesso sia dequalificante rispetto alla formazione acquisita in patria, o anche la pesantezza dello stesso lavoro, spesso conduce le lavoratrici in stati di isolamento, solitudine e depressione.
Nonostante questo, e specialmente nei casi in cui non abbiano una valida residenza o permesso di lavoro o quando non parlano la lingua del paese, un numero significativo di migranti si prepara ugualmente ad accettare condizioni di lavoro senza alcuna protezione solo perché sembra essere l’unica soluzione ai loro bisogni.

A livello europeo c’è un grande gap tra quelli che dovrebbero essere i diritti riconosciuti e quella che è poi la pratica. Questa è una conseguenza di politiche incoerenti che hanno utilizzato due pesi e due misure, e che hanno fatto in modo che le leggi migratorie influissero sulle politiche occupazionali impedendo di fatto il trattamento eguale e la non discriminazione dei lavoratori migranti. Sin dagli anni ottanta i lavoratori domestici hanno cercato di organizzarsi per rivendicare i propri diritti,e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro adesso sta facendo pressioni sul mondo istituzionale europeo ed internazionale affinché venga ratificata una dichiarazione che provveda al riconoscimento del lavoro domestico come lavoro, e che ponga le basi per la costituzione di un quadro legale per tutti i lavoratori domestici, nei parametri di ciò che viene definito decent work.

Gli stati devono assumersi le loro responsabilità in tema di welfare e protezione sociale, perchè solo se si migliorano le condizioni di lavoro, si stimolano le capacità e si giunge a un completo riconoscimento dei domestic workers ci potrà essere un grosso beneficio non solo per i lavoratori ma anche per i datori di lavoro. È necessario quindi che vengano messe in atto pratiche non solo giuridiche, ma soprattutto concrete, che partano un right-based e gender-sensitive approach,  oltre ad azioni economiche come incentivi ai datori di lavoro nel rilascio di voucher e assicurazioni, per assicurare la coesione sociale e il benessere della nostra società.

La nostra cooperativa editrice Lai-momo realizza progetti per le lavoratrici domestiche straniere nella Provincia di Bologna.

Per info vedi:

http://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/2662010-il-pullman-delle-donne-native-e-migranti-parte-verso-mantova/

http://www.laimomo.it/a/index.php?option=com_content&view=article&id=16&Itemid=20&lang=it

http://www.laimomo.it/a/index.php?option=com_content&view=article&id=66&catid=2&Itemid=21&lang=it

Olga Solombrino

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04 febbraio 2011

9° CORSO DI FORMAZIONE “MEDICI IN AFRICA” 18 – 22 maggio Università di Genova

Segnaliamo la nona edizione del corso di formazione “Medici in Africa” che si terrà presso l’università di Genova dal 18 al 22 maggio 2011. Organizzato dall’associazione onlus “Medici in Africa”, tale progetto si rivolge principalmente a medici e infermieri che intendono svolgere azioni di volontariato nei paesi africani o in altri paesi emergenti. Il corsi mira a fornire, in tempi brevi, informazioni sulla situazione sanitaria in Africa, cenni di diagnosi e terapia di malattie tropicali frequenti, nonché nozioni di auto-protezione dalle più ricorrenti pandemie. Si procederà, inoltre, col racconto delle esperienze di colleghi che hanno già vissuto in tali zone nonché col la messa in contatto dei futuri cooperanti con alcune organizzazioni che lavorano in loco.

Il costo del corso è di 300 euro.

Presto sarà possibile anche effettuare l’iscrizione attraverso il sito www.mediciinafrica.it.

Quest’anno verrà organizzato anche un “corso di perfezionamento universitario”, con la partecipazione di Medici in Africa, dedicato a laureati in discipline chirurgiche o scienze infermieristiche che hanno preso già parte al corso base, oppure a coloro che hanno avuto precedenti esperienze di volontariato nei paesi in via di sviluppo. L’obiettivo di tale corso è quello di approfondire tecniche diagnostiche e terapeutiche di patalogie africane. Il corso teorico-pratico si svilupperà presso i reparti dell’Università di Genova in distinti periodi di cinque giorni  al mese, per due- tre mesi, con inizio a novembre 2011. A questa parte seguirà un periodo di attività pratica, della durata di tre settimane, da svolgere in Africa con il supporto di un tutor, presso ospedali che già collaborano con l’associazione.

L’iscrizione al corso sarà consentita a 12 persone. Il costo del corso è pari a 800 euro.

Per informazioni più dettagliate controllare il bando che verrà pubblicato dall’Università di Genova e sul sito di Medici in Africa.

Per le iscrizioni al corso, ulteriori indicazioni ed eventuali donazioni contattare:

MEDICI IN AFRICA ONLUS  Segreteria Organizzativa

Da lun. a ven. 9.30/13 mercoledì 9.30/15.30 tel 010/35377621 – 340/7755089

mediciinafrica@unige.it

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03 luglio 2009

Il dossier su Immigrazione e salute e il “pacchetto sicurezza”

Presentazione di AeM all'Ospedale San Gallicano di Roma

Presentazione di AeM all'Ospedale San Gallicano di Roma

Ieri il decreto sicurezza è stato approvato al senato. Rispetto al giorno della prima approvazione alla Camera, il 13 maggio, sono cambiate molte cose. Le elezioni sono passate, la Lega ha avuto le sue soddisfazioni, ma gli scandali privati del Premier sembrano aver spezzato quell’incantesimo per cui ogni cosa che faceva era accolta con entusiasmo dal popolo italiano.

Quei giorni sono stati davvero scoraggianti per chi lavora con l’immigrazione. Il 6 maggio il Governo si era spinto molto avanti con l’azione anti-immigrati: tre barconi con a bordo 227 persone (40 donne di cui tre incinte e molti malati) erano stati soccorsi in acque maltesi da motovedette italiane, al largo di Lampedusa, ed erano stati riportati in Libia. Nessuno dei migranti era libico, mentre i loro luoghi di provenienza – Nigeria, Etiopia, Somalia – avrebbero dovuto farli riconoscere dalle Istituzioni italiane quali rifugiati, con diritto alla protezione umanitaria in base alla Convenzione di Ginevra.
Questo il clima in cui abbiamo fatto la nostra presentazione. La gente sembrava entusiasta della linea dura, in più, il terremoto dell’Abruzzo si era trasformato da tragedia in occasione di comunicazione e consenso per il Governo.

Il 13 maggio noi eravamo a Roma, all’ospedale San Gallicano (INMP – Istituto Nazionale per la Promozione della Salute delle Popolazioni Migranti ed il Contrasto delle Malattie della Povertà ), a presentare il nostro dossier, dedicato al tema “Medicina e Migrazione” .
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23 giugno 2009

La migrazione e il rapporto con la salute

In cerca di accoglienza, Roma 2006. Foto di Sarah Klingeberg

In cerca di accoglienza, Roma 2006. Foto di Sarah Klingeberg

Presentazione dell’articolo “La salute delle persone in viaggio” pubblicato sul numero 64 di Africa e Mediterraneo a firma di Rabih Chattat, professore associato di Psicologia Clinica presso l’Università di Bologna e responsabile Ricerca e Aggiornamento presso SOKOS, associazione per l’assistenza a emarginati e immigrati a Bologna.

Un viaggio migratorio richiede, paradossalmente, più risorse di quanto l’individuo in realtà possegga. Il migrante si trova generalmente esposto a fattori di stress che hanno un impatto significativo sulla possibile relazione tra la provenienza e lo stato di salute attuale. Il tema della salute delle persone in viaggio può essere analizzato seguendo una prospettiva di tipo trasversale, collocando all’estremo di una retta il luogo fisico di partenza e all’altro estremo lo stato attuale di salute in un dato momento nella nuova realtà.

Lungo questa linea si collocano poi tutti quei fattori che in grado di modulare l’esito della condizione di salute. Sono tre gli ordini di fattori importanti: uno di tipo biologico/genetico (vulnerabilità di determinate popolazione a determinate malattie; selezione della prima generazione di migranti sulla forza fisica) uno di tipo socioculturale (rischio di “esaurimento” a distanza di 2-4 anni dalla partenza, necessità di ricomporre la separazione) e un altro relativo alla condizione socioeconomica (prevalentemente aspetti relativi alla mansione svolta nel paese di destinazione e accesso a reti sociali).

L’articolo prende in esame gli elementi connessi alla prima fase dell’immigrazione (circa i primi tre anni) focalizzandosi sul caso degli immigrati non assistiti dal servizio sanitario nazionale. In particolare l’autore attinge dall’esperienza e dalle ricerche condotte dall’associazione SOKOS per illustrare le problematiche connesse al rapporto salute/migrazione.

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