17 novembre 2009
Immaginando l’inimmaginabile: arte visuale e memoria a Ouidah
Presentazione dell’articolo “Immaginando l’inimmaginabile: arte visuale e memoria a Ouidah”, pubblicato sul numero 67 di Africa e Mediterraneo a firma di Toni Pressley-Sanon, dottorando presso il dipartimento di Lingue e Letteratura africane dell’Università del Wisconsin-Madison.
La Porta del Non Ritorno, disegnata e decorata da Fortuna Bandiera, può essere considerata il simbolo dell’iniziativa Slave route project che l’UNESCO ha promosso in Bénin. In tale progetto la spiaggia è emblema del luogo da cui migliaia di persone furono imbarcate, durante il periodo della schiavitù, verso il nuovo mondo.
Tra le raffigurazioni presenti sulla Porta del Non Ritorno, collocata su una larga piattaforma circolare, ci sono quattro bassorilievi che riproducono un litigio tra alcuni schiavi incatenati che aspettano la nave che li porterà dall’altra parte dell’Atlantico. Figure maschili e femminili inginocchiate sono ripetute fino alla cima di entrambe le colonne della Porta. Nel lato in cui la piattaforma affaccia sull’oceano sono collocate due statue di Kulito (parola fon che indica o gli antenati o “coloro che stanno per intraprendere il cammino della morte”) le quali simboleggiano gli spiriti di coloro che torneranno attraverso la Porta. Anche gli spiriti dei soggetti della diaspora, facendo parte del pantheon vodun, ritorneranno nella terra dei loro antenati.
Gli artisti incaricati dall’UNESCO di disegnare la Porta dovevano creare una struttura, mai realmente esistita, che fosse capace di evocare e rappresentare la continuità storica tra l’oggi e il passato – sia a livello nazionale che internazionale – senza, tuttavia, occultare l’assenza di materiale documentario per la storia della schiavitù beninese. L’intero complesso creato da Bandeira non solo rende tangibile la continuità col passato, ma evoca l’intensificarsi dell’alienazione e della dislocazione degli schiavi dalla loro terra materna.
I monumenti e i musei di Ouidah sono veri e propri siti della memoria. Essi, tracciando un resoconto della diaspora africana iniziata con la tratta transatlantica degli schiavi, non solo rafforzano la coscienza e la continuità storica nel presente dei beninesi ma, soprattutto, personificando la memoria come qualcosa “che si radica nel concreto, negli spazi, nei gesti, nelle immagini e negli oggetti”, strutturano il presente e modellano il futuro. In altri termini, questi siti “concretizzano” e rendono tangibile la storia della tratta degli schiavi che, prima di tale progetto, rischiava di cadere nell’oblio. Tali luoghi della memoria possono essere considerati, inoltre, siti di contestazione perché, rendendo pubblicamente accessibile il passato, ne fanno, al contempo, l’elemento a partire da cui strutturare “criticamente” presente e futuro.
Parole chiave : Bénin, N67, Porta del Non Ritorno
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13 novembre 2009
Il tempo ritrovato, la Collezione Corsi a Verona
Si inaugura oggi 13 novembre “Il tempo ritrovato. Forme e storia dell’arte africana nella Collezione Corsi”.
Sentire parlare Fabrizio Corsi della bellezza delle sue opere d’arte africane è un momento prezioso. E’ un’esperienza che non si dimentica vederlo mentre le maneggia e le rigira, con le mani forti che non hanno paura di rovinare i colori e le patine, che sanno se i cauri e le perline sono ben fissati o si possono staccare, che accarezzano il legno impastato dal tempo quasi per aggiungere usura (nel senso di uso) e quindi valore all’oggetto.
Oggi il Museo Africano di Verona, uno dei più antichi, qualificati e visitati musei “etnografici” presenti in Italia, inaugura una mostra sulla nuova collezione raccolta da Fabrizio Corsi dopo la donazione della sua prima collezione al Museo Civico “E. Caffi” di Bergamo.
Il Museo di Verona sta caratterizzando la propria azione culturale con un grande impegno nella didattica interculturale e nella divulgazione presso i giovani della conoscenza delle culture africane. Questo nuovo incontro con Fabrizio Corsi (dopo la prima mostra Il Cantico delle Creature sugli animali nell’arte africana), anche lui molto attento alla trasmissione alle giovani generazioni della conoscenza e della capacità di comprensione di questo grande patrimonio culturale, non può che essere feconda.
E poi, Fabrizio Corsi è uno degli storici collaboratori di Africa e Mediterraneo, quindi oggi è una festa anche per noi.
Fino al 20 giugno 2010. Info: Museoafricano .
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09 novembre 2009
Sviluppo, turismo e protezione del patrimonio culturale del Bénin
Presentazione dell’articolo “Sviluppo, turismo e protezione del patrimonio culturale del Bénin”, pubblicato su Africa e Mediterraneo n.67, a firma di Caroline Gaultier-Kurhan- fondatrice del dipartimento di gestione del patrimonio culturale dell’Università di Senghor e Sandrine Léontina Dossou, curatrice presso l’università di Senghor di un progetto di valorizzazione del patrimonio bati di Ouudah.
Lo sviluppo, il turismo e la preservazione del patrimonio culturale sono da sempre al centro degli interessi del Departement patrimoine culturel dell’Université Senghor d’Alexandrie. In questo spirito, dal 2006 sono stati realizzati due tipi di attività.
La prima, in collaborazione con il Ministero della Cultura e il Ministero del Turismo concerne la formazione di professionisti locali per lo sviluppo del turismo, guide e operatori turistici in Bénin.
La seconda riguarda la realizzazione di una ricerca, sponsorizzata dal AIMF (Association Internazionale des Maires Francophones – l’associazione internazionale dei sindaci francofoni) sul patrimonio architettonico e sulle possibilità di sviluppo turistico in Ouidah (città emblematica della ricchezza di patrimonio materiale ed immateriale).
Il Bénin è spesso solo un paese di transito per i turisti; tuttavia ha grande fama intellettuale di “quartiere latino dell’Africa”, ed è conosciuto per lo spirito di accoglienza che offre ai visitatori. La ricerca condotta dall’Università Senghor d’Alexandrie ha identificato i tre maggiori punti di attrazione della città di Ouidah: la storia secolare legata alla tratta degli schiavi, il patrimonio immateriale che influenza altri continenti, e l’ambiente naturale ricco e variegato.
Le autrici osservano che, benché i dati dell’OMT (Organizzazione mondiale del turismo) dimostrino un incremento del turismo, di quest’ultimo non necessariamente beneficiano le popolazioni locali. Notano, inoltre, che il patrimonio architettonico del Bénin è in pericolo a causa della mancanza di fondi per la sua preservazione e ristrutturazione e di interesse, e aggiungono la necessità di salvaguardare queste testimonianze al know-how antico e alla storia.
La ricerca propone di convertire gli elementi del patrimonio architettonico – ad esempio case storiche – in alloggi turistici e pensioni. Il progetto mira a fare di Ouidah una destinazione turistica durevole, di cui conservare e restaurare il patrimonio architettonico, conformemente ai dettami del turismo sostenibile, e quindi coinvolgendo e sostenendo le popolazioni locali dal punto di vista economico, sociale, culturale e politico. Tale tipo di turismo è inoltre rispettoso della cultura, della società e dell’ambiente e permette uno scambio culturale autentico e una comprensione reciproca tra persone e culture.
Parole chiave : Bénin, N67, preservazione patrimonio, sviluppo, Turismo
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Presentazione dell’articolo “L’architettura cattolica in Bénin: tra patrimonio storico e affermazione dell’identità”, pubblicato sul numero 67 di Africa e Mediterraneo a firma di Laurick Zerbini, docente di Storia dell’Arte africana presso l’Università di Lione 2. Il suo lavoro è incentrato prevalentemente sui musei missionari e sull’architettura cristiana dell’Africa dell’Ovest.
Sin dall’Ottocento l’azione delle missioni cattoliche in Africa dell’ovest ha trasformato il paesaggio urbano e cultuale attraverso l’edificazione di chiese sempre più imponenti, in cui lo stile europeo e quello locale si sono mescolati. Si distinguono due insiemi architettonici, uno nel sud del paese, nelle città di Porto-Novo e Ouidah (primo quarto del novecento) caratterizzati da uno stile neo-gotico e neo-romano, e l’altro nella zona nord-ovest, dove l’evangelizzazione è stata più tardiva, (verso il 1940) e che presenta impronte stilistiche regionali.
La presenza della missione a Ouidah risale alla metà del Seicento. Nel 1870 si espande verso Porto-Novo, dove Padre F.Terrien costruì, con il sostegno del nuovo re “Toffa” una chiesa dedicata all’ Immacolata concezione, il cui stile neo-gotico riflette le ambizioni dei missionari.
Fino al 1890 le missioni si concentrano soprattutto lungo le coste, ma a partire dal 1895 i missionari iniziano a muoversi verso l’interno del paese, con l’intenzione di convertire le masse e non più solo i singoli individui. Nel 1940 Joseph Huchet fonda la prima missione d’Atacora e costruisce la prima chiesa a Natitingou con uno stile che richiama le abitazioni tradizionali somba.
Le chiese di Ouidah e di Porto-Novo si richiamano alla cristianità medievale, simbolo di una società unita nella fede. Questo riferimento stilistico traduce la volontà di mostrare la nascita (Ouidah) e la consolidazione di questa nuova forma di cristianità (Porto-Novo).
Il tentativo di sombaizzazione dell’architettura del nord-ovest del paese riflette lo spirito della prima evangelizzazione, nel rispetto delle caratteristiche socio-culturali della popolazione, ma rinforza anche l’identità culturale e religiosa della regione dell’Atacora.
L’inizio del XXI secolo vede affermarsi uno stile tipicamente regionale nella costruzione delle chiese, uno stile che corrisponde alla volontà di conservazione del patrimonio storico e architettonico.
Il patrimonio riflette le scelte della società: esso è portavoce dei significati, della memoria e della continuità che la società vuole mettere in evidenza e trasmettere alle generazioni future. L’architettura cattolica dalla fine del XIX al XXI secolo propone una rilettura di questo concetto, non solo in termini occidentali, ma anche in termini di metissage culturale. Esso offre la possibilità di porsi delle domande sulle costruzioni assimilate al patrimonio occidentale e di proporre una lettura in termini di acculturazione e di riappropriazione di modelli architettonici nati dal movimento moderno.
Parole chiave : architettura cattolica, Bénin, N67, patrimonio
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Presentazione dell’articolo “Il vudù al cuore del processo di creazione e patrimonializzazione in Bénin” pubblicato sul numero 67 di Africa e Mediterraneo a firma di Dominique Juhé Beaulaton, storico che da molti anni lavora sulla storia delle relazioni socio-ambientali in Africa dell’ovest (Togo- Bénin).
Nel sud del Bénin, la produzione artistica contemporanea investe i luoghi di culto vudù e i palazzi dei capi, essendo ereditaria dell’arte di corte dei regni tradizionali del Dahomey, Porto Novo, Ouidah, Allada, conosciuti dagli europei giunti sulla costa del golfo di Guinea.
Ogni corte reale aveva i suoi artisti-artigiani e il potere politico era legato ai poteri religiosi che si manifestavano negli antenati e nelle divinità.
Questi artigiani specializzati costruivano i palazzi e li decoravano ispirandosi ai simboli propri di ciascun re e alle gesta compiute dai guerrieri che si sono succeduti nel corso di questi regni. Allo stesso modo, ogni divinità poteva essere rappresentata attraverso una produzione simbolica iconografica, musicale o materiale concorrente alla sua identificazione e alla sua influenza.
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Parole chiave : N67, patrimonializzazione, Vudu
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18 settembre 2009
Ricordare e ricostruire il passato di schiavitù in Bénin
Presentazione dell’articolo “Remembering and reconstructing Brazilian slave past in Bénin” pubblicato sul numero 67 di Africa e Mediterraneo a firma di Ana Lucia Arujia, assistant professor al dipartimento di Storia all’Howard University (Washington DC).
L’articolo esamina il ruolo rivestito dalla cultura visuale per la ricostruzione della storia della schiavitù prendendo in esame le immagini presenti in un museo fondato da un discendente degli ex schiavi, che deportati dall’Africa in Brasile, fecero successivamente ritorno sulla costa beninese.
Dopo la ribellione malês (1835) di Bahia (Brasile), molti degli schiavi africani, prevalentemente di estrazione yoruba, diedero vita ad un movimento di ritorno verso la costa occidentale dell’Africa. Nel golfo del Bénin, questi schiavi tornati in Africa si stanziarono nelle città di Agoué, Ouidah, Porto Novo e Lagos e qui, unendosi ai mercanti di schiavi portoghesi e brasiliani, formarono una comunità afro-luso-brasiliana, nota come Aguda.
Mentre la storia dei discendenti dei commercianti degli schiavi è supportata da una documentazione scritta, quella dei discendenti degli schiavi, essendo legata soprattutto all’oralità, è segnata da lacune documentarie. A partire dagli anni ’90 progetti dell’UNESCO come La via degli schiavi hanno cercato di porre lo studio della storia della schiavitù e il problema dell’identità della comunità afro-luso-brasiliana al centro del dibattito pubblico. Accanto ad un interesse genuino per la storia della schiavitù maturò la tendenza a fare della discendenza dagli schiavi un modo per guadagnare potere politico.
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Parole chiave : Bénin, memoria, N67, Schiavitù
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E’ uscito il nuovo numero di Africa e Mediterraneo con un dossier interamente dedicato al Bénin. Ilvudù e l’eredità dello schiavismo sono due elementi storico-culturali di grande impatto per l’immaginario occidentale e per la diaspora africana che il Bénin, da qualche tempo, sta valorizzando e salvaguardando per un rilancio turistico del paese.
Il legame tra turismo e patrimonio era già stato affrontato nel numero precedente, partendo dalla considerazione che la costruzione del “patrimonio” (artistico, paesaggistico, umano) è centrale all’interno del pensiero critico contemporaneo degli studi culturali.
Questo secondo dossier analizza il caso specifico del Bénin, un paese che si autodefinisce “culla del vudù” e il cui Ministero del Turismo scrive in epigrafe al proprio sito “Bénin, terre de mystere”, mostrando in questo modo di voler concentrare i propri interventi soprattutto a vantaggio delle risorse culturali.
Pubblichiamo di seguito il Pdf dell’introduzione, che potete leggere o scaricare.
Parole chiave : Bénin, N67, patrimonio, Turismo, Vudu
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22 luglio 2009
La questione dei musei etnografici, problemi e proposte
Presentazione dell’articolo “Il malessere dei musei etnografici” pubblicato sul numero 62 di Africa e Mediterraneo a firma di
Yaya Savané, storica e museologa, professoressa associata alla Scuola di Belle Arti di Bordeaux e alla Scuola di Studi Superiori di Scienze sociali a Parigi.
Esiste un malessere all’interno dei musei etnografici. Un malessere che coinvolge l’etimologia stessa del termine, il suo legame con l’arte, con la cultura, con il paese d’origine degli oggetti, con la globalizzazione e il mondo moderno. Il museo etnografico oggi comunica troppo spesso un’idea riduttiva e banalizzata della cultura. Si presenta a noi come una sorta di “casa dei feticci”, piena di maschere e statue, senza però essere in grado di trasmettere nulla ai suoi spettatori se non la propria immobilità.
Mentre alle sue origini ha svolto la funzione di centro di ricerca etnografico per culture minacciate, in via d’estinzione o “primitive”, oggi il museo etnografico attraversa una fase dove gli oggetti esposti in alcuni musei etnografici vengono spogliati del loro significato e della loro cultura e rappresentano soltanto pure opere d’arte, passando da una prospettiva etnografica a una prospettiva puramente estetica. Entrambi i punti di vista non fanno che imprigionare e rendere riduttiva la cultura africana.
Sono invece necessari un approccio e un rigore scientifico che portino il museo etnografico a realizzare la sua missione culturale, nel rispetto delle tradizioni e dei valori dei popoli che rappresenta. È necessario mostrare al pubblico africano ed europeo l’importanza del patrimonio culturale e artistico evidenziando i legami di interdipendenza e di interpenetrazione delle civiltà africane.
L’Africa non può e non deve essere banalizzata come terra di coccodrilli, maschere e tamburi. L’Africa e la sua cultura non possono essere e non sono né immobili né banali: sono in movimento e sono estremamente complesse. Come il mondo moderno. E questo movimento e questa complessità devono essere assolutamente evidenti nei musei etnografici, perché abbiano ancora la loro ragion d’essere. I musei devono rispondere oggi ai bisogni della società che si è evoluta.
Devono adeguarsi ai tempi e alle dinamiche moderne. Secondo le parole di Théodore Delachaux: «Il museo deve essere per il pubblico uno strumento di educazione che gli insegnerà la molteplicità, l’ingegnosità, la tenacia degli esseri umani, delle società umane in tutte le sue forme, per resistere, durare, perfezionarsi e svilupparsi attraverso le generazioni: in una parola il divenire dell’Uomo».
Parole chiave : Musei etnografici, N62
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25 giugno 2009
Africa opens its eyes to its art
For our internet readers we publish the article “Africa opens its eyes to its art” as a preview from the last number of The Courier (special 3, June 2009):
After almost two decades characterised by the intense effort to fight the invisibility of African art in the contemporary scene – through big pan African exhibitions, important publications and participation in biennials – now the most appealing trend in African contemporary art is the involvement of the African public together with the participation of local governments, museums and sponsors.
In recent years we observed the birth of some extremely interesting initiatives in several African countries, led by curators and artists firmly convinced that it is necessary to bridge the huge divide between African artists (cultivated, recognized worldwide, and with international relations) and African citizens living in widely different conditions. These initiatives move from the assumption that all people have the right to access the knowledge and input that contemporary art can give them. They have the right to be educated in art interpretation, and to experience its richness and aesthetic pleasure that it can give. They have the right to visit a contemporary art gallery and enjoy it. Africa must open its eyes to its artistic production.