Organizzare la 27a edizione dello Zanzibar International Film Festival è stata una sfida. Una delle più importanti manifestazioni culturali del continente africano, che si svolge nell’affascinante Stone Town, l’antica città dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, non ha alla base un’organizzazione strutturata e finanziamenti stabili da parte delle istituzioni locali e internazionali, e il recente cambio nella direzione ha rischiato di metterla in crisi.
Nel 2023 il fondatore, direttore e punto di riferimento del festival, il regista zanzibarino Martin Mhando, ha insistito per lasciare l’incarico che aveva ricoperto per 25 anni, portando lo ZIFF a diventare un punto di riferimento per chi è interessato/a a seguire la produzione cinematografica, in particolare dell’Africa orientale. Per succedergli era stato nominato Amil Shivji, un giovane regista tanzaniano vincitore di una precedente edizione con il film Vuta N’Kuvute, incentrato sulla colonizzazione a Zanzibar. Dopo aver preso in mano l’attività di programmazione con grande energia, a dicembre 2023 Shivji ha declinato l’incarico, senza dare spiegazioni. I rumors ipotizzano (e non è difficile crederlo) un contrasto con il board del Festival, composto da anziane personalità di Zanzibar, la cui influenza continua ad avere molto ascolto. Sono stati quindi nominati in tutta fretta due operatori con una lunga esperienza nello staff del festival: Joseph Mwale, già promotore marketing da 15 anni, come CEO, e Hatibu Madudu come direttore artistico. Era febbraio, il tempo per organizzare era pochissimo e così il festival è stato spostato dall’usuale mese di giugno a inizio agosto, e ridotto a quattro giorni.
Grazie al più grande numero di candidature (3.000) mai ricevute, il festival ha presentato 25 film, 23 corti e 12 documentari da diversi paesi: Tanzania, Kenya, Zambia, Nigeria, Pakistan, India, Francia, Ghana, Senegal, Uganda, Egitto, Sud Sudan, Canada, Iran, Russia, USA, Cina, Sudan, Palestina, Brasile, Marocco, Stati Uniti, Tunisia.
Allo ZIFF la visione dei film è aperta al pubblico e gratuita, la sede principale delle proiezioni è l’Old Fort, costruito dagli Arabi nel XVIII secolo. Non sempre l’organizzazione è adeguata e, a parte il sito web fermo al 2023, ci si può ritrovare con un film in arabo senza i sottotitoli o una proiezione che si interrompe improvvisamente. Ma poi succede che il pubblico resta seduto e aspetta che lo staff faccia ripartire il film, mentre il produttore del film invece di arrabbiarsi si alza e dice: “Avete pazienza di aspettare? Vi racconto il pezzo che è saltato e riprendiamo, va bene per voi?” E la gente resta…
Così è successo con Mungai Kiroga, produttore del documentario Searching for Amani di Nicole Gormley e Debra Aroko, dove Simon Ali, un ragazzo keniano di 13 anni aspirante giornalista, indaga sull’uccisione, avvenuta nel 2019, di suo padre, guardia forestale nell’area protetta privata di Laikipia in Kenya. Sullo sfondo i contrasti tra gli allevatori nomadi, sempre più in cerca di terra per le loro mandrie decimate dalla siccità, e gli agricoltori, che vogliono proteggere le terre che coltivano stanzialmente. Lo sguardo di Simon, e del suo migliore amico appartenente a una famiglia di allevatori messa in grave crisi dalla siccità, offre una rappresentazione estremamente poetica oltre che critica su chi sono le vittime della crisi climatica, sulla conservazione della natura e sulla giustizia per le comunità. Kiroga ha spiegato che il progetto originario prevedeva di dare la telecamera a tre giovani di tre aree del mondo colpite dal cambiamento climatico, ma il Covid ha fatto sì che solo con Simon sia stato possibile. In più, i produttori hanno capito che il suo carattere sensibile e forte allo stesso tempo e il suo entusiasmo per la professione giornalistica sarebbero stati sufficienti a nutrire l’intero film, che infatti ha già vinto vari premi, tra cui il Best New Documentary Director al Tribeca film festival.
Venendo ai premi dello ZIFF 2024, annunciati la sera del 4 agosto, Nisha Khalema, regista esordiente ugandese, ha vinto il premio del Migliore Film dell’Africa Orientale con Makula (Certainly not a Mrs), storia drammatica di una ragazza che dopo il suo matrimonio “da sogno” si trova imprigionata in una drammatica situazione di violenza e sfruttamento, da cui deve fuggire. Khalema, che ha vinto anche il premio come Migliore Attrice dell’Africa Orientale, la sera della premiazione ha affascinato il pubblico con una mise scintillante e discorsi frizzanti e ironici sul fatto che essere premiata come giovane donna ha un valore in più.
Khalema era tra le partecipanti alla masterclass tenuta da Rama Thiaw, regista, produttrice e scrittrice mauritano-senegalese, autrice dei film documentari ambientati in Senegal Boul Fallé. La voie de la lutte (2009) e The Revolution won’t be Televised. Thiaw ha introdotto la sessione formativa – partecipata da una trentina di filmaker provenienti da paesi dell’Africa orientale e finanziata dalla Unione Europea Thiaw si è concentrata sugli aspetti legali della produzione dei film, a partire dal momento dell’ideazione: come registrare l’idea, come negoziare per proteggere la propria parte del diritto d’autore, importante soprattutto per chi agisce in paesi in cui la debolezza dell’industria cinematografica obbliga alla co-produzione con enti del Nord. Con i/le partecipanti ha analizzato un vero e proprio contratto di co-produzione, articolo per articolo, suscitando molto interesse.
Il film vincitore come Best Feature Film è stato Goodbye Giulia, di Mohamed Kordofani, film di apertura del programma. Ambientato in Sudan nel periodo precedente alla secessione del Sud Sudan con il referendum (2011), caratterizzato da violenze tra musulmani del nord e cristiani originari del sud, narra la storia del rapporto tra una ex cantante (del nord) e la giovane vedova di un uomo del sud di cui lei ha causato la morte. Per rimediare al senso di colpa la donna assume la ragazza come domestica, facendo vivere lei e il figlio nella sua casa. Sullo sfondo delle tensioni tra le due popolazioni e della propaganda politica che hanno preceduto il referendum, si evolve il rapporto tra le due donne, mettendo in discussione i punti di vista dell’una e dell’altra: la complessità dei due caratteri si rivela poco a poco e coinvolge grazie a una sceneggiatura perfetta.
La scelta di premiare questo film, annunciata per ultima, ha reso felici le poche persone che avevano resistito fino alla fine della cerimonia di premiazione, iniziata con un ritardo di un’ora e mezza per aspettare il Guest of Honor, l’ex presidente di Zanzibar, e sviluppatasi con discorsi “delle autorità” in swahili abbastanza noiosi (fortunatamente alternati a musica e premiazioni con gli artisti e le artiste protagoniste). Nella cerimonia di apertura il CEO Joseph Mwale aveva ammesso che “la crisi dello ZIFF serve come allarme per tutti noi. Di questo passo, rischiamo di perdere ciò che ci è caro”, e aveva esortato tutti a sentire il festival come proprio, a collaborare per assicurare che esso non solo sopravviva, ma prosperi, continuando a ispirare le generazioni future.
Perché questo avvenga, sarà necessario che, oltre alla messa in campo di un sistema organizzativo stabile, efficiente e attento agli impatti, si realizzi davvero il tema che era stato scelto per questa edizione: la “rejuvenation”. Un ringiovanimento che la componente anziana dell’organizzazione dovrà accettare.
Altri riconoscimenti sono andati a Our land, our freedom (Kenya, diretto da Zippy Kimundu e Meena Nanji) come Miglior Documentario, Oceanmania/Baharimania (Tanzania, diretto da Alphonce Haule e Gwamaka Mwabuka) come Migliore Cortometraggio, Otis Janam in Nick Kwach (Kenya) come Migliore Attore dell’Africa Orientale, Uhuru Wangu (Zanzibar, diretto da Mohammed Sule) Premio Fondazione Emerson, Unabankable (Canada, diretto da Luke Willms) come Migliore Documentario selezionato dal Board del festival. È stata premiata anche, come Migliore Serie TV dell’Est Africa, Arday Somalia di Shukri Abdukadir.
Segnaliamo anche il cortometraggio Mirah, di Ahmed Samir (Egitto), storia di una giovane biologa egiziana che in Germania fatica a farsi accettare. Su richiesta della censura, ben presente in Tanzania, per la proiezione ufficiale il regista ha dovuto tagliare alcune scene che potevano alludere a tematiche “sensibili”, ma in seguito è stato possibile ri-proiettarlo nella versione completa. Anche la proiezione del video WonDarLand, non nel programma ufficiale, non era scontata, essendo il frutto di workshop tenuti a Dar es Salaam dal danzatore francese Matthieu Nieto sul tema della sofferenza psicologica dovuta all’esclusione e dell’accettazione di sé da parte degli adolescenti.
“A festival it about a place, about audience, but it is also more about context”, ha scritto l’ex direttore Martin Mhando nell’introduzione al catalogo dell’edizione del 2022. Niente di più adatto allo Zanzibar International Film Festival.