Africa e Mediterraneo anche quest’anno organizza la presentazione regionale per l’Emilia-Romagna dell’edizione 2022 del Dossier Statistico Immigrazione, che si terrà giovedì 27 ottobre 2022, h 11-13 presso la Sala Conferenze di Biblioteca Salaborsa, Piazza del Nettuno 3 a Bologna, in contemporanea con la presentazione nazionale di Roma e tutte le regioni e province autonome d’Italia.
Come ogni anno, l’ingresso è libero, fino a esaurimento posti, e a ciascun partecipante sarà distribuita una copia cartacea gratuita del Dossier Statistico Immigrazione 2022.
Dopo un saluto dell’assessore Luca Rizzo Nervo, la prima parte della presentazione sarà dedicata a un focus per la stampa con la presentazione dei dati regionali e cittadini a cura di Valerio Vanelli (Università di Bologna) e Maria Adele Mimmi (Capo Area Welfare del Comune di Bologna). Seguiranno gli approfondimenti da parte di Pietro Pinto, della Redazione del Dossier Statistico, Maurizio Braglia (Regione Emilia-Romagna, Settore Politiche Sociali d’Inclusione e Pari Opportunità) e Marie-Paule N’Guessan (Progetto SPAD del Comune di Bologna). Concluderanno l’incontro Daniele Massa (Diaconia Valdese), Alda Germani (CGIL E.-R.), Fatima Mochrik (CISL E.-R.) e Paula Benea (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni). Coordinerà i lavori Sandra Federici, direttrice di Africa e Mediterraneo.
Con il supporto di una ricca gamma di dati statistici aggiornati, che ogni anno IDOS raccoglie da una pluralità di fonti ufficiali ed elabora in maniera rigorosa e originale, il Dossier Statistico Immigrazione analizza ad ampio raggio tutte le dimensioni fondamentali dell’immigrazione in Italia.
Nell’edizione 2022, in particolare, vengono trasversalmente analizzati, con il contributo di vari esperti, gli effetti sociali, economici e occupazionali della crisi pandemica e della guerra in Ucraina sul quadro migratorio italiano e sulle condizioni di vita dei migranti che vivono nel Paese.
Parole chiave : 2022, Dossier statistico immigrazione, Idos, Immigrazione, pandemia, Ucraina
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Posti limitati in presenza per giovedì 28 ottobre 2021 in Palazzo d’Accursio alla presentazione del Dossier Statistico, che quest’anno registra per la prima volta da 20 anni un calo nella presenza di migranti.
Giovedì 28 ottobre, alle h 11, si terrà in Palazzo d’Accursio la presentazione regionale per l’Emilia-Romagna del Dossier Statistico Immigrazione, con dati nazionali, regionali e relativi all’Area metropolitana di Bologna.
L’anno durissimo della pandemia ha inciso anche sulle tendenze della presenza migratoria in Italia. Il nostro paese, in declino demografico da almeno sei anni, nel 2020 ha registrato un calo totale di quasi 200mila abitanti, ma per la prima volta, da 20 anni a questa parte, ha avuto anche un notevole calo della popolazione straniera, che è diminuita di 26.422 unità.
Gli effetti del Covid-19 hanno reso molto più precarie le condizioni sociali, economiche e lavorative di molta popolazione che vive in Italia, colpendo in maniera particolarmente dura le categorie già fragili ed emarginate, tra cui gli immigrati. Nel 2020, gli stranieri in condizioni di povertà assoluta sono arrivati a 1,5 milioni, il 29,3% dei 5 milioni complessivi che risiedono in Italia, ma sono rimasti maggiormente esclusi per vincoli giuridici da moltissime forme di sostegno al reddito e di contrasto alla povertà. Nonostante questo, hanno continuato a pagare tasse, ad avviare nuove imprese e hanno mandato nei paesi di origine più rimesse (6,7 miliardi di euro nel 2020) rispetto al 2019.
Africa e Mediterraneo organizza come ogni anno la presentazione ufficiale per l’Emilia-Romagna, in contemporanea con tutti i focal point regionali e con l’evento nazionale a Roma, di nuovo in presenza ma con posti limitati e con il doveroso rispetto delle normative relative al Green Pass e all’emergenza sanitaria.
Dopo i saluti istituzionali, tra i quali un intervento di Elly Schlein, vicepresidente della Regione e Giuseppina Bagnato, pastora della chiesa valdese di Bologna, il redattore del Dossier Pietro Pinto presenterà i dati nazionali, mentre Valerio Vanelli, ricercatore dell’Istituto Cattaneo per l’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio, Maria Adele Mimmi, Capo Area Welfare del Comune di Bologna, e Andrea Facchini della regione Emilia-Romagna presenteranno gli approfondimenti territoriali. Coordinerà i lavori Sandra Federici, direttrice di Africa e Mediterraneo.
La presentazione (con consegna gratuita di una copia del dossier) è limitata a 36 partecipanti iscritti all’indirizzo f.daddato@africaemediterraneo.it, mentre sarà possibile seguire la presentazione sulla pagina facebook di Africa e Mediterraneo e sul sito www.laimomo.it
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INTRODUZIONI
Un rappresentante del Comune di Bologna
Elly Schlein, Vice presidente Regione Emilia-Romagna Giuseppina Bagnato, Pastora della Chiesa metodista di Bologna e Modena
INTERVENTI
Pietro Pinto, Redazione Dossier Statistico Immigrazione I dati nazionali
Valerio Vanelli, Ricercatore Istituto Cattaneo per l’Osservatorio regionale sul fenomeno migratorio Cittadini stranieri in Emilia-Romagna: residenti e dinamiche demografiche
Maria Adele Mimmi, Capo Area Welfare e Promozione del Benessere della Comunità del Comune di Bologna I dati dell’accoglienza a Bologna
Andrea Facchini, Regione Emilia-Romagna, Servizio Politiche per l’integrazione sociale La mediazione linguistico-culturale
COORDINA I LAVORI
Sandra Federici, direttrice di Africa e Mediterraneo
Sarà possibile seguire la presentazione sulla pagina facebook di Africa e Mediterraneo e sul sito www.laimomo.it
Parole chiave : Dossier Statistico Immigrazione 2021, Elly Schlein, pandemia
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Che ruolo ha il settore privato nella transizione ecologica? E, in particolare, come si posiziona la moda in questo contesto? Si parlerà di questo il 4 ottobre a Lampedusa, alla giornata conclusiva della International School on Migration.
È diventato ormai un luogo comune associare moda e cambiamento climatico. I dati del suo impatto ambientale sono impietosi e sono la prima ragione per invocare una vera e propria rivoluzione del nostro stile di vita. Il modello lineare di produzione e consumo dei capi – il cosiddetto take–make–waste – assorbe risorse immense, restituendo al pianeta tipologie molteplici di rifiuti che compromettono i già instabili meccanismi rigenerativi del nostro sistema antropocentrico. Il fast fashion, la moda usa e getta, alimenta comportamenti iper-consumistici che giustificano l’acquisto compulsivo di capi – e l’altrettanto compulsiva eliminazione degli stessi che avviene entro una finestra d’uso sempre più ridotta – come una risposta al susseguirsi acceleratissimo dei trend, una strategia commerciale minuziosa che arriva a immettere sul mercato – fisico e digitale – anche due collezioni in un mese. I report pubblicati da organizzazioni internazionali come la Ellen McArthur Foundation [https://www.ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/A-New-Textiles-Economy_Summary-of-Findings_Updated_1-12-17.pdf] restituiscono la fotografia di un’industria che fa ancora troppo poco per interrompere la catena dello sfruttamento.
La pandemia ha anzi esacerbato questo modello commerciale, rendendo ancora più marcati i suoi effetti sui lavoratori e le loro geografie sociali di appartenenza. Il Sud e le periferie del mondo, che sono la fucina della moda usa e getta, hanno subito il contraccolpo dell’atrofizzazione dei consumi scatenata dal lockdown [https://www.tandfonline.com/doi/pdf/10.1080/15487733.2020.1829848?needAccess=true]. La contrazione dei consumi nel Nord ha accresciuto la vulnerabilità sociale nel Sud e messo a nudo la natura sistemica dello sfruttamento in cui produttori e consumatori condividono la responsabilità del cambiamento. Inoltre, alcuni paesi del Sud fungono da discarica dell’enorme quantità di abiti gettati al sistema di consumo del fast fashion [https://www.afrosartorialism.net/2021/02/26/sustainability-files-managing-fashion-waste-in-ghana/] Come risponde il made in Italy a questo stato delle cose? In che modo l’industria leader che alimenta e confeziona da decenni il sogno di fare la differenza affronta la sfida di lasciare spazio alla differenza? Il quarto modulo della School approfondirà le pratiche di transizione sostenibile nell’industria della moda italiana, analizzando in che modo le aziende assicurano il rispetto dei diritti umani e attuano i principi etici di responsabilità verso la collettività, ricerca del benessere, giustizia e uguaglianza.
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Beyond take-make-waste: fashion needs a social revolution
What is the role of the private sector in the green transition? And where does fashion stand in this context? The final session of the International School on Migration happening in Lampedusa on 4 October will address these questions.
It is well known that fashion has a huge impact on climate change. The figures on its environmental impact are staggering, giving cause for us to call for a revolution of our ways of life. The take – make – waste linear model of production and consumption of clothes requires immense resources, yields such quantities of material and immaterial waste that compromise the ability of our Anthropocentric planet to regenerate itself. Fast fashion triggers hyper-consumeristic behaviours of compulsive shopping and disposing of new clothes in short spans of time, taking place in a scenario of hyper-accelerated seasonal change that sees mega retailers producing up to two new collections every month. The reports published by international bodies like the Ellen McArthur Foundation [https://www.ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/A-New-Textiles-Economy_Summary-of-Findings_Updated_1-12-17.pdf] present the picture of an industry that has not step up yet to ending exploitation.
The pandemic has instead exacerbated this commercial model, accentuating its negative effects on workers and their social geographies. The peripheries and South of the world, where fast fashion factories are located, have suffered the consequences of the decline of consumption that followed the lockdown of 2020[https://www.tandfonline.com/doi/pdf/10.1080/15487733.2020.1829848?needAccess=true]. Moreover, a number of countries in the South of the world operate as actual landfills of the huge amount of textile waste generated by the fast fashion system [https://www.afrosartorialism.net/2021/02/26/sustainability-files-managing-fashion-waste-in-ghana/]This phenomenon originating in the richer North increased social vulnerability in the South, unveiling the systemic nature of exploitation and the shared responsibility of producers and consumers to enact change. How has made in Italy reacted to this state of affairs? How is the industry that for decades has nurtured and manufactured the dream of distinction making a difference? The fourth session of the School will examine good practices of sustainable transition in Italian fashion with respect to human rights protection, equality, workers prosperity, and social justice.
Parole chiave : cambiamento climatico, fast fashion, International School on Migration 2021, Moda, pandemia
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Di Sandra Federici
Si è tenuto in dall’1 al 4 marzo con incontri a Brazzaville e online il 7° Africa Regional Forum on Sustainable Development (ARFSD), per fare il punto sul raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda 2030 e dell’Agenda 2063: The Africa We Want, nella consapevolezza della “devastazione economica e sociale portata dalla pandemia”, e decidere le misure politiche da adottare. L’idea che ha permeato gli interventi è che anche qui la ricostruzione post-Covid19 dovrà seguire traiettorie green e tendenti alla minima emissione di carbonio, per poter costruire un’Africa resiliente inclusiva e sostenibile.
Ma molti relatori hanno affermato che, proprio ora che si è inaugurata la “decade of action” per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030, si prevede che molti paesi falliranno nell’ottenerli, in particolare, a detta del rappresentante regionale per l’Africa della FAO, Abebe Haile-Gabriel, per quanto riguarda il numero 1: “fame zero”. “Ci sono troppe criticità dovute al cambiamento climatico, alla povertà economica e all’impatto negativo del Covid19, così come alla scarsità degli investimenti pubblici” che dovrebbero sostenere misure di protezione sociale verso i più vulnerabili. Tuttavia, il fatto di aver creato l’African Continental Free Trade Area (AfCFTA) costituisce un’opportunità unica per trasformare il sistema alimentare del continente, se gli impegni ad alto livello si uniranno a investimenti e azioni locali e nazionali.
Il report Building Forward for an African Green Recovery lanciato dall’ECA contestualmente al Forum, spiega che, prima della pandemia, i paesi africani crescevano in media di più del 3%, più che altre aree del mondo, anche se le disparità di reddito erano in aumento in tutta la regione e più del 50% della popolazione dell’Africa centrale viveva sotto la soglia di povertà estrema. Se l’impatto della pandemia non sarà limitato entro la fine del 2021, si rischia di distruggere i progressi fatti nell’ultimo decennio.
James Murombedzi, esperto dell’ECA’s African Climate Policy Centre (ACPC), ha garantito che il suo ente supporterà la Commissione dell’Unione africana nel finalizzare la African Climate Change Strategy (2020-2030), per inquadrare l’azione degli stati verso l’abbassamento delle emissioni di anidride carbonica. Il cammino verso la crescita economica, ha sottolineato, dovrà essere verde, perché il cambiamento climatico distrugge le economie nazionali, gli ecosistemi e le vite, e la possibilità per l’Africa di raggiungere gli obiettivi 2030 e 2063. Murombedzi ha indicato tra le sfide da raggiungere quella di integrare i servizi digitali di informazione climatica nei processi di sviluppo, e la promozione di interventi green che sicuramente, come è provato anche dal Report dell’ECA, genereranno posti di lavoro “ecosostenibili”.
Il forum ha dato molto spazio al tema degli investimenti e dei finanziamenti. James Kinyangi dell’African Development Bank (AfDB) ha notato che si prevede di raddoppiare i finanziamenti per la diminuzione delle emissioni di carbonio e la resilienza climatica da $12.5 miliardi nel 2016-2020 a $25 nel periodo 2021-2025. Gli investimenti pubblici sono in effetti cruciali: Chris Toe del WFP ha affermato che i paesi africani devono investire prioritariamente nella trasformazione del settore agricolo, nello sviluppo di infrastrutture sostenibili e nel capitale umano. Il rappresentante del Ministero dell’Agricoltura Congolese, Mukena Bantu, ha affermato che la nuova amministrazione è determinata a sviluppare l’agricoltura, e che vuole far sì che “il suolo prevalga sul sottosuolo”.
Germain Mpassi, il Direttore Generale per lo Sviluppo Sostenibile del Ministero dell’Ambiente e del Turismo della Repubblica del Congo, ha affermato che l’Africa deve giocare un ruolo nell’ottenimento degli obiettivi dell’accordo di Parigi COP21, e ha posto l’accento sull’importanza del bacino del Congo, secondo polmone del pianeta, come riserva globale contro l’emissione di carbonio, e spiegato le misure che stanno prendendo per proteggere la foreste e le popolazioni che vi sono insediate.
Razi Bozekri, del Ministero dell’Ambiente marocchino, ha sottolineato la traiettoria verso l’energia pulita intrapresa dal suo governo, attraverso l’uso del solare e dell’energia eolica. Ha citato come success story il Noor Ouarzazate Solar Complex, che nel 2016 è stato collegato alla rete principale del Marocco ed è stato finanziato anche dalla AfDB, e ricordato l’African Action Summit organizzato dal re del Marocco a margine della COP22 tenuta a Marrakech nel 2016. L’importanza del finanziamento delle azioni contro il cambiamento climatico e della digitalizzazione e dell’accesso ai sistemi di informazione climatica è stata sottolineata da Mithika Mwenda della Pan African Climate Justice Alliance (PACJA), coalizione con sede a Nairobi che riunisce più di mille ONG, comunità, fondazioni e network, e dall’attivista nigeriana Chinma George.
Numerosi documenti e studi relativi alla conferenza sono disponibili sul sito dell’United Nation Economic Commission for Africa (UNECA), che ha organizzato l’evento.
Parole chiave : Africa Regional Forum on Sustainable Development, cambiamento climatico, Forum africano, pandemia, rivoluzione green
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21 gennaio 2021
Uganda e la sfida della democrazia
Il regime di Museveni in Uganda corrompe e tortura chiunque cerchi di ostacolarlo. Nel 2017 la parlamentare Betty Nambooze, che aveva cercato di bloccare una proposta di legge che avrebbe permesso a Museveni di governare a vita, fu portata dalle forze speciali in una stanza senza telecamera. Ne uscì con due vertebre rotte. Nel 2018 il cantante ugandese Bobi Wine, dopo la sua elezione in parlamento, fu arrestato insieme ad altri suoi colleghi con l’accusa di aver lanciato pietre durante un comizio del presidente. Uscirono dal carcere che dovevano appoggiarsi alle stampelle per camminare. Lo scorso autunno, in piena emergenza sanitaria causata dalla pandemia, 16 persone sono state uccise e altre 65 sono state ferite durante due giorni di violente manifestazioni di protesta in seguito all’ennesimo arresto di Bobi Wine, candidato dell’opposizione per le presidenziali.
Yoweri Museveni, 76 anni, è l’uomo forte dell’Uganda dal 1986. Quest’anno ha vinto il suo sesto mandato nonostante le accuse di irregolarità durante la campagna elettorale del 14 gennaio 2021, ottenendo il 59% dei voti contro Bobi Wine, che ha ottenuto il 35%. Museveni è anche uno dei più stretti collaboratori africani degli Stati Uniti in materia di sicurezza: gli ugandesi hanno prestato servizio militare sotto il comando statunitense in Iraq e in Somalia, e in cambio ogni anno il Paese riceve da Washington miliardi di dollari destinati al sistema sanitario e soprattutto all’efficienza dell’esercito ugandese. Come scrive Helen Epstein, nell’articolo Vietato criticare pubblicato sul numero 1392 / anno 28 dell’Internazionale, si tratta di «una forma moderna di colonialismo, anche se Washington preferisce parlare di “partenariato” (…) Per riempire le tasche di un dittatore, e far sì che i suoi soldati combattano le guerre degli stranieri, è necessario pensare che le vite degli africani siano sacrificabili».
Attualmente Bobi Wine è agli arresti domiciliari dal giorno del voto presidenziale, ma continua a denunciare il furto elettorale, le intimidazioni e le aggressioni degli alleati al regime. Il suo attivismo poltitico gli è valso il soprannome di “presidente del ghetto” e la sua ascesa ha infiammato i giovani ugandesi, anche tra chi non aveva mai mostrato interesse per la politica. Nei testi delle sue canzoni, un misto di rap e reggae, Bobi Wine parla della disoccupazione giovanile, della povertà delle baraccopoli e della repressione del dissenso. Il cantante, dunque, si inserisce sulla scia dell’azione di protesta di diversi giovani africani che sfidano le vecchie élite al potere e aspirano al rinnovamento sociale e politico. Lo scrittore, drammaturgo e poeta nigeriano Wole Soyinka, premio Nobel per la letteratura, è intervenuto sulle elezioni ugandesi del 14 gennaio, dichiarando che «Bobi Wine, per me in questo momento, rappresenta il volto della democrazia per l’Uganda».
Segnaliamo questo documentario interessante pubblicato per DWDocumentary:
https://www.youtube.com/watch?v=9YMu55BN3Ns