21 luglio 2021

Oltre il take-make-waste: la moda ha bisogno di una rivoluzione sociale

Che ruolo ha il settore privato nella transizione ecologica? E, in particolare, come si posiziona la moda in questo contesto? Si parlerà di questo il 4 ottobre a Lampedusa, alla giornata conclusiva della International School on Migration. 

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È diventato ormai un luogo comune associare moda e cambiamento climatico. I dati del suo impatto ambientale sono impietosi e sono la prima ragione per invocare una vera e propria rivoluzione del nostro stile di vita. Il modello lineare di produzione e consumo dei capi – il cosiddetto take–make–waste –  assorbe risorse immense, restituendo al pianeta tipologie molteplici di rifiuti che compromettono i già instabili meccanismi rigenerativi del nostro sistema antropocentrico. Il fast fashion, la moda usa e getta, alimenta comportamenti iper-consumistici che giustificano l’acquisto compulsivo di capi – e l’altrettanto compulsiva eliminazione degli stessi che avviene entro una finestra d’uso sempre più ridotta – come una risposta al susseguirsi acceleratissimo dei trend, una strategia commerciale minuziosa che arriva a immettere sul mercato – fisico e digitale – anche due collezioni in un mese. I report pubblicati da organizzazioni internazionali come la Ellen McArthur Foundation [https://www.ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/A-New-Textiles-Economy_Summary-of-Findings_Updated_1-12-17.pdf] restituiscono la fotografia di un’industria che fa ancora troppo poco per interrompere la catena dello sfruttamento. 

La pandemia ha anzi esacerbato questo modello commerciale, rendendo ancora più marcati i suoi effetti sui lavoratori e le loro geografie sociali di appartenenza. Il Sud e le periferie del mondo, che sono la fucina della moda usa e getta, hanno subito il contraccolpo dell’atrofizzazione dei consumi scatenata dal lockdown [https://www.tandfonline.com/doi/pdf/10.1080/15487733.2020.1829848?needAccess=true]. La contrazione dei consumi nel Nord ha accresciuto la vulnerabilità sociale nel Sud e messo a nudo la natura sistemica dello sfruttamento in cui produttori e consumatori condividono la responsabilità del cambiamento. Inoltre, alcuni paesi del Sud fungono da discarica dell’enorme quantità di abiti gettati al sistema di consumo del fast fashion [https://www.afrosartorialism.net/2021/02/26/sustainability-files-managing-fashion-waste-in-ghana/] Come risponde il made in Italy a questo stato delle cose? In che modo l’industria leader che alimenta e confeziona da decenni il sogno di fare la differenza affronta la sfida di lasciare spazio alla differenza? Il quarto modulo della School approfondirà le pratiche di transizione sostenibile nell’industria della moda italiana, analizzando in che modo le aziende assicurano il rispetto dei diritti umani e attuano i principi etici di responsabilità verso la collettività, ricerca del benessere, giustizia e uguaglianza.  


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Beyond take-make-waste: fashion needs a social revolution

 

What is the role of the private sector in the green transition? And where does fashion stand in this context? The final session of the International School on Migration happening in Lampedusa on 4 October will address these questions. 

It is well known that fashion has a huge impact on climate change. The figures on its environmental impact are staggering, giving cause for us to call for a revolution of our ways of life. The  take – make – waste linear model of production and consumption of clothes requires immense resources, yields such quantities of material and immaterial waste that compromise the ability of our Anthropocentric planet to regenerate itself.  Fast fashion triggers hyper-consumeristic behaviours of compulsive shopping and disposing of new clothes in short spans of time, taking place in a scenario of hyper-accelerated seasonal change that sees mega retailers producing up to two new collections every month. The reports published by international bodies like the Ellen McArthur Foundation [https://www.ellenmacarthurfoundation.org/assets/downloads/A-New-Textiles-Economy_Summary-of-Findings_Updated_1-12-17.pdf] present the picture of an industry that has not step up yet to ending exploitation. 

The pandemic has instead exacerbated this commercial model, accentuating its negative effects on workers and their social geographies. The peripheries and South of the world, where fast fashion factories are located,  have suffered the consequences of the decline of consumption that followed the lockdown of 2020[https://www.tandfonline.com/doi/pdf/10.1080/15487733.2020.1829848?needAccess=true].  Moreover, a number of countries in the South of the world operate as actual landfills of the huge amount of textile waste generated by the fast fashion system [https://www.afrosartorialism.net/2021/02/26/sustainability-files-managing-fashion-waste-in-ghana/]This phenomenon originating in the richer North increased social vulnerability in the South, unveiling the systemic nature of exploitation and the shared responsibility of producers and consumers to enact change. How has made in Italy reacted to this state of affairs? How is the industry that for decades has nurtured and manufactured the dream of distinction making a difference? The fourth session of the School will examine good practices of sustainable transition in Italian fashion with respect to human rights protection, equality, workers prosperity, and social justice.

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27 luglio 2017

Food, fashion, design: imprese creative tra Italia e Africa

Più volte la moda attinge dal ricchissimo patrimonio di colori, stampe e suggestioni del continente africano. Anche il design, in particolare l’arredamento, e la cucina si ispirano ai prodotti e alle tradizioni di un intero continente che riunisce un’incredibile varietà di climi, culture, religioni. L’Africa presenta una propria esuberanza creativa e artistica, ed è terra di origine di molte persone che oggi vivono, studiano e lavorano in Italia. Per questo motivo, possono nascere opportunità di scambio interculturale e di impresa creativa. Per identificare e approfondire queste possibilità di sviluppo di modelli di business ispirati dall’incontro tra imprenditorialità e creatività italiana e africana, a Milano nasce la prima Summer School dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “FOOD, FASHION, DESIGN: IMPRESE CREATIVE TRA ITALIA E AFRICA”, organizzata da ALTIS (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica, ModaCult). Il corso inizia a settembre e le iscrizioni sono aperte a chiunque sia interessato a indagare, come sostiene Emanuela Mora, Direttore Scientifico della Summer School, «le ricadute socio-economiche sia sul territorio italiano, in termini di inclusione, integrazione e ricerca di nuove opportunità di business, sia nei Paesi africani, in termini di sviluppo locale e creazione di nuove attività e posti di lavoro.»

Per maggiori informazioni sulla Summer School: http://bit.ly/2rZ5rpe

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05 luglio 2017

Nei panni dell’altro. Laboratorio di moda e arti grafiche

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Si diffondono le iniziative nel settore della moda etica per trovare concrete opportunità occupazionali ai migranti. Spesso questi progetti si pongono l’obiettivo di offrire strumenti professionali utili nel percorso d’integrazione e inserimento sociale, ma anche per creare professionisti che possano sfruttare le competenze acquisite e trovare un lavoro dignitoso in caso di rientro nel proprio paese di origine. Un gruppo di rifugiati, provenienti prevalentemente dall’Africa Occidentale, e ospiti del Centro di Accoglienza SPRAR Famiglia Amica e del CAS di Borgo Tresauro a Ragusa, sono stati coinvolti nel progetto di moda e arti grafiche Nei panni dell’altro realizzato dalla cooperativa Rel-Azioni e promosso dalla Fondazione San Giovanni Battista di Ragusa.

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Il laboratorio di pittura su stoffa e rielaborazione sartoriale è stato coordinato da Gampiero Carta, architetto e direttore creativo, in collaborazione con Loredana Roccasalva, designer siciliana molto attenta ai temi dell’etica e della solidarietà. I capi sono stati dipinti interamente a mano dai ragazzi, valorizzando il patrimonio culturale ed estetico di cui essi sono portatori, e utilizzando prevalentemente materiali di recupero, in un’ottica di consapevole sostenibilità ecologica. I modelli realizzati sono stati poi esposti a una mostra allestita presso la Chiesa del Collegio di Maria Santissima Addolorata durante il Festival delle Relazioni 2017 di Ragusa per sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’intercultura, del rispetto e della valorizzazione delle differenze culturali.

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La migrazione è, infatti, un fenomeno difficile da affrontare e richiede risposte concrete: la tessitura e la sartoria, ad esempio, sono un patrimonio di attività manuali che possono essere messe all’opera per creare, non solo l’accoglienza, ma anche opportunità economiche e una qualità di vita diversa per le persone migranti. Anche la cooperativa sociale Lai-momo di Bologna segue questo percorso, attraverso il partenariato con l’International Trade Centre (Itc) delle Nazioni Unite, impegnandosi in un programma di formazione nella moda etica e nel design per i giovani immigrati. Questi progetti possono diventare un esempio e una risposta significativa al fenomeno migratorio: creare le possibilità lavorative in Europa e nei paesi di origine di chi è costretto a fuggire, significa rimettere in circolo l’economia e offrire alle nuove generazioni l’occasione per costruirsi un futuro dignitoso.

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Per maggiori informazioni: www.festivaldellerelazioni.it

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15 gennaio 2016

Richiedenti asilo sfilano a Pitti Immagine Uomo

 

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AKJP, Finale “Generation Africa”. © Giovanni Giannoni

Si è tenuta ieri a Firenze, nella cornice di Pitti Immagine Uomo 89, una sfilata molto particolare: Generation Africa. Sulla passerella le creazioni di quattro brand africani – AKJP (Sudafrica), Ikiré Jones (USA/Nigeria), Lukhanyo Mdinigi x Nicolas Coutts (Sudafrica) e U.Mi-1 (Nigeria/UK) – e tra i modelli tre richiedenti asilo.

Generation Africa nasce dalla partnership tra Fondazione Pitti Discovery e ITC Ethical Fashion Initiative, progetto creato per sostenere le capacità dei micro-imprenditori africani e le reti del settore “moda”. Con l’obiettivo di promuovere giovani e talentuosi fashion designer africani e per mostrare l’irrompente energia creativa del continente nell’ambito della moda, Generation Africa si è avvalso della collaborazione con Lai-momo soc. coop., società cooperativa italiana impegnata in progetti di accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo.

Lo scorso dicembre, infatti, è stata presentata alle persone accolte nelle strutture di accoglienza nel territorio bolognese gestite da Lai-momo la possibilità di partecipare a una selezione per le sfilare nell’ambito dell’Ethical Fashion Initiative. Alcuni ospiti hanno aderito e hanno partecipato al casting tenuto da talent scout di agenzie di modelli e dell’EFT: sulla base dell’altezza e dell’aspetto fisico ne sono stati selezionati cinque. Questi ragazzi, che hanno dai 19 ai 27 anni, vengono da Mali e Gambia e nei loro paesi erano contadini, muratori, camerieri o commercianti. Quasi tutti sono in Italia da maggio 2015, vivono nei centri di accoglienza in Provincia di Bologna e alcuni di loro fanno volontariato nei territori di accoglienza, in attesa di portare a termine le procedure di richiesta d’asilo. Fin dal primo momento si sono resi conto di avere l’opportunità di mettersi in gioco in una situazione professionale a cui non avevano mai pensato.

Durante le prove, i tre richiedenti asilo erano visibilmente emozionati e anche un po’ insicuri, ma alcuni dei giovani modelli professionisti che sfilavano con loro li hanno rassicurati e incoraggiati, dando loro anche piccoli suggerimenti pratici per camminare al meglio sulla passerella. Nella concitazione che domina il backstage durante le sfilate, se la sono cavata benissimo e sono usciti rispettando i tempi, sfilando sotto i riflettori tra le due ali di pubblico e stampa internazionale che affollavano lo spazio della Dogana di Via Valfonda.

“È stata una grande opportunità, ma non ci montiamo la testa”, hanno commentato i tre neo-modelli. “La cosa che ci ha fatto più piacere è stata la gentilezza con cui tutti, dagli stilisti ai professionisti che organizzavano la sfilata, ci hanno trattato”.

Ma il progetto non finirà qui. Infatti, ITC e Lai-momo hanno deciso di continuare a collaborare per sviluppare le capacità economiche dei richiedenti asilo e rifugiati in Italia, nell’ambito della sartoria e delle confezioni, per consentire loro di sviluppare capacità e competenze spendibili sul mercato e contribuire in questo modo all’economia dei loro Paesi d’origine, direttamente o indirettamente attraverso le loro rimesse, o dei Paesi europei in cui sono ospitati.

 

 

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15 giugno 2010

Cosa caratterizza l’identità della moda in Namibia?

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Cosa caratterizza l’identità della moda in Namibia?”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Melanie Harteveld Beker, stilista namibiana e dottoranda sul tema della formazione delle identità e la moda namibiana.

Dalla metà degli anni Novanta si assiste in tutto il continente africano a una grande rinascita della moda, un fenomeno che coinvolge anche la Namibia.
Anche qui infatti la moda non solo offre ai consumatori l’opportunità di esprimere, attraverso gli indumenti, la propria stessa identità, ma offre anche agli stilisti la libertà di sperimentare ed esprimersi all’interno di un contesto “veramente namibiano”.
Da allora infatti anche un gran numero di stilisti namibiani, inclusa l’autrice dell’articolo, lavorano piuttosto isolati dagli altri, e lentamente hanno iniziato a costruire quella che sembra essere una nuova identità stilistica su base regionale. Ciò ha fatto sì che la sartoria namibiana sia da sempre molto lontana da una produzione industriale di massa, diventando quindi uno stile assai di nicchia; e la ragione di questo è che nessuno stilista crea abiti in grande quantità.
Guardando alle collezioni passate, è evidente che la forte influenza della cultura materiale namibiana è un’importante fonte d’ispirazione per gli stilisti locali.
Tratti distintivi sono i colori “naturali”, i tessuti e le stoffe uniche e una grandissima cura del dettaglio.
Anche per quanto riguarda il colore, gli stilisti trovano spesso ispirazione attraverso due fonti: gli abiti tradizionali e soprattutto l’ambiente esterno (paesaggi, acqua, piante, animali, ecc.); essi infatti descrivono spesso le loro scelte di colore come ispirate dalla natura.
Le stoffe provengono generalmente da materiali grezzi (tessuti, fibre e altri materiali), decorati poi con effetti visivi particolari come cuciture e riflessi e resi davvero unici dall’utilizzo di pelli di capra e mucca, odelela (stoffa di cotone a righe), piume, gusci di uova di struzzo, perline e semi.
La sperimentazione nell’utilizzo di varie combinazioni delle stoffe con tali decorazioni è la giusta strada per inserire elementi tipicamente namibiani nell’industria tessile. Facendo questo gli stilisti saranno in grado di aggiungere la propria stessa identità personale nel processo di creazione delle stoffe e infine degli indumenti.
Gli stilisti della Namibia hanno dunque cominciato, dalla metà degli anni Novanta, quello che sembra essere un movimento collettivo attraverso lo sviluppo di una moda identitaria e “tradizionale” ed è altresì evidente quanto essi siano ancora fortemente influenzati dagli elementi derivanti dai paesaggi e dalla cultura delle loro origini.

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07 giugno 2010

Il dandismo in Africa

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Il dandismo in Africa”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Marie-Amy Mbow, archeologa, ricercatrice sul tessile africano, docente presso l’Institut Fondamental d’Afrique Noire e artista.

A giudicare dalla diffusione delle insegne dei sarti nelle capitali africane e dai frequenti ammodernamenti a cui sono sottoposti gli abiti, soprattutto quelli dei giovani, la sartoria vive un momento di grande vitalità nel continente.
Sebbene stilisti africani di fama rivendichino un proprio ruolo, questa effervescenza sembra essere soprattutto il prodotto della passione e dell’abilità di sarti locali e degli stessi giovani africani che non possono in alcun modo permettersi di acquistare gli abiti dei grandi stilisti africani.
Un ruolo centrale in queste dinamiche hanno i cosiddetti fashion freak o dandy, che hanno fatto della moda una vocazione e un lavoro. I dandy africani, per di più originari delle ex-colonie francesi o inglesi, hanno messo il loro amore per l’eleganza al servizio di amici, conoscenti e clienti. Riuniti in club con speciali codici per gli adepti, pensano se stessi come una sorta d’aristocrazia.
I precursori di questo movimento sono senza dubbio i dandy di Bacongo in Brazzaville, che hanno fondato il club denominato SAPE (Société des Ambianceurs et Personnes Elégantes o Society of Makers of Atmosphere and Elegant People).
Il confronto con i dandy del secolo scorso è inevitabile. Mentre questi miravano a scioccare la società borghese europea, i membri della SAPE (detti in francese sapeurs) seguono la moda per affermarsi in società dove l’apparenza è tutto.
Sociologicamente questo fenomeno può essere visto come il risultato di una dinamica culturale nata dall’incontro tra cultura africana e cultura occidentale; una dinamica che, seppure l’identificazione con un modello dominante sia piuttosto evidente, non può essere circoscritta e interpretata semplicemente come assimilazione in quanto le abilità, le risorse e le aspettative dei sapeurs sono centrali. Questi, e i dandy africani in generale, attraverso gli strumenti dei rituali e dei club, creano nuovi modelli e nuovi valori, andando a costituire una vera e propria subcultura.
Il fenomeno dei sapeur, in conclusione, presenta le città africane come laboratori dell’innovazione dove emergono nuovi stili e modelli sociali sperimentali da elaborare e rielaborare e in cui è comunque visibile, in una certa misura, l’influenza della tradizione.

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03 giugno 2010

Mimetizzazione urbana. Safari di strada

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Mimetizzazione urbana. Safari di strada”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Ann Gollifer, storica dell’arte e artista.

Il tessuto è una lezione di storia materializzata, che passeggia nelle città e nei villaggi di tutta l’Africa.
La storia dell’origine e della diaspora dei tessuti wax e fancy comincia con l’arrivo dei mercanti olandesi in Indonesia nel diciottesimo secolo, i quali copiarono la tecnica batik e ne introdussero la produzione in Olanda. I batik europei (detti wax) erano realizzati attraverso apparecchiature industriali ed erano più costosi dei loro simili artigianali.
La popolarità delle stampe wax crebbe sia in Europa che in Africa tra la metà e la fine del diciannovesimo secolo. La colonizzazione creò una forte domanda di questi tessuti in Africa, al punto che l’industria europea assorbì, nel suo repertorio, motivi e gusti africani. I colonizzatori utilizzavano questi prodotti per aver accesso al continente e alla sua popolazione; ma, allo stesso tempo, registrando i gusti dei clienti africani, l’importazione di questi tessuti permise la salvaguardia di tradizioni vitali e la loro congiunzione con la contemporaneità.
Nel XX secolo l’industrializzazione della produzione tessile si sviluppò in Africa in collaborazione con l’Europa. In particolare, grandi impianti furono aperti in Nigeria e Ghana, i cui prodotti cominciarono a rivaleggiare con le manifatture europee.
Oggi le fabbriche tessili olandesi e inglesi, ad eccezione di Vlisco, hanno chiuso. E anche la produzione africana è diminuita a causa del mercato degli abiti usati e della concorrenza di tessuti indiani e cinesi prodotti espressamente per il mercato africano.
Gollifer, stimolata dalla ricerca su questi tessuti, ha cercato di creare qualcosa che coniugasse la profondità storica del wax con la moda contemporanea e nel 2007, con un gruppo di giovanissimi, desiderosi d’acquisire uno stile maggiormente consapevole, ha creato l’etichetta Urban Camouflage. Insieme hanno organizzato una serie di “safari di strada”, durante i quali si recavano in luoghi particolari della città e realizzavano delle performance. Queste performance avevano impatto sia sulla popolazione presente sia sul gruppo stesso, che reagiva in modo diverso a seconda dei luoghi.
Il progetto ha dato all’autrice l’opportunità di trovare quello che definisce «il senso più contemporaneamente africano» della moda e dello stile, che ne incorpora la storia, l’identità, l’ironia e l’innovazione.

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01 giugno 2010

Il sistema prêt-à-porter

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Il sistema prêt-à-porter”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Barbara Holub, artista e membro di Transparadiso.

Nel progetto The System: Prêt-à-porter Barbara Holub, artista austriaca, partendo dal fenomeno quotidiano dell’abbigliamento, analizza differenti modelli economico-sociali relativi allo scambio o alla vendita d’abiti usati. Un piccolo video realizzato presso un yard sale (mercatino domestico) di Los Angeles, si concentra soprattutto sul cambiamento della postura che le persone assumono nel weekend quando si recano ad acquistare o scambiare abiti (usati) nei cortili anteriori loro o dei loro vicini. Questo processo incoraggia la comunicazione in aree residenziali che sarebbero altrimenti tagliate fuori dal mondo esterno. Nel video, lo scambio di beni ed eventualmente di denaro non è necessariamente basato sul profitto economico e costituisce la base della comunicazione.
Un modello di relazione inversa, centrata al profitto, può essere visto nel pannello realizzato dall’artista ed esposto presso la galleria Künstlerhaus a Vienna nel 2006. Il pannello mostra un macchinario per la selezione degli abiti usati utilizzato dall’organizzazione Humana. Quest’organizzazione, di cui si è interessata l’artista austriaca, è stata fondata in Danimarca ma è attiva a livello mondiale ed ha operato anche a Vienna, dove avveniva la selezione degli abiti usati per il mercato africano. Oggi quest’attività è stata dislocata in Bulgaria e Turchia, dove il costo del lavoro è inferiore.
Sul pannello è possibile vedere l’immagine di una persona graficamente ricoperta dalla fotografia del macchinario per la selezione degli abiti. La persona rappresenta simbolicamente la sparizione di questo lavoro a Vienna. Le foto scattate durante il fashion show al Künstlerhauspassage di Vienna sono poi state utilizzate per creare un paravento esposto al Plymouth Arts Centre.
Barbara Holub lancia un appello su questa rivista agli artisti africani interessati a sviluppare una collezione a partire dagli abiti usati importati dall’Europa, che costituisca un’interpretazione contemporanea della moda africana. Lo scopo è trovare un’interpretazione ibrida della cultura europea e di quella africana. The System: Prêt-à-porter, nato come progetto artistico, potrebbe portare alla creazione di un’etichetta che più che soddisfare il desiderio d’esotismo europeo, rappresenti la con- temporaneità della moda africana.

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30 maggio 2010

Moda ecologica in Africa: gli stilisti guadagnano il centro della scena

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Moda ecologica in Africa: gli stilisti guadagnano il centro della scena”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Novell Zwangendaba, artista dello Zimbabwe e direttrice dell’etichetta BlackScissors.

Il degrado ambientale, risultato dei danneggiamenti compiuti dall’uomo all’ecosistema terrestre, e le sue conseguenze, hanno oggi visibilità globale. La Conferenza delle Nazioni Unite su Commercio e Sviluppo chiede che le risorse naturali siano utilizzate in modo sostenibile. Così anche le firme della moda “ecologica” hanno scelto d’utilizzare materiali biologici e risorse rinnovabili.
Gli stilisti africani sono tra i pionieri di questo nuovo corso della moda: lavorando nella direzione della preservazione dell’ambiente e del consumo etico, producendo a partire risorse sostenibili e/o alternative, come quelle provenienti dal riciclo.
Alphadi, presidente di All-Africa Fashion Designers, ha lanciato una campagna che, attraverso la creatività degli stilisti, coniuga preoccupazioni per l’ambiente e moda. Alphadi ha negozi a New York, Parigi e in diversi Stati africani, una lista di clienti notevole, che include le mogli di molti presidenti africani, Hillary Clinton e Michael Jackson: egli sostiene che la promozione della “moda verde” sia un bene non solo per l’ambiente ma anche per il portafoglio. I suoi capi d’alta moda eco-chic costano diverse migliaia di dollari.
I prodotti “verdi” e i loro benefici presso i consumatori sono promossi in Africa dai “Real Simple Green Innovation Awards”. Questo premio, istituito nel 2008, ha visto come primo vincitore MADE, la nuova collezione di gioielli della Topshop, prodotta dall’immaginazione dei più innovativi stilisti africani, attraverso l’uso di materiale alternativo riciclato. I proventi della vendita di questi gioielli vanno direttamente ai produttori e una percentuale è destinata a finanziare progetti di formazione per le comunità locali. Nel 2009 il premio è stato vinto da Brett Kaplan con la linea d’abbigliamento Woolworths Green Label, fatta col 100% di cotone organico.
Quest’onda di sensibilizzazione in campo ambientale interessa anche l’Africa Orientale, dove il marchio “Made in Africa”, è diventato un prodotto esclusivo di A QUESTION OF, una compagnia che vende merce biologica e T-shirt alla moda prodotte in Tanzania per il mercato equo-solidale. Il cotone biologico, per questa compagnia, non è soltanto una soluzione amica dell’ambiente: oltre ad esser coltivato senza fertilizzanti chimici o pesticidi, infatti, è prodotto garantendo condizioni di lavoro adeguate, certificate Global Organic Textile Standards (GOTS).
La ricerca di preservazione e sostenibilità sono le più importanti azioni in campo ambientale oggi. Anche Vivienne Westwood, la quale sostiene che la moda, poiché effimera, non può esser un’arte, ha realizzato (suo malgrado!) pezzi d’arte alla moda, usando materiali riciclati.

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30 maggio 2010

Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica

in: Moda

Presentazione dell’articolo “Prospettive su moda, cultura e identità in Sudafrica”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Masana Chikeka, Design Manager presso il Department of Arts and Culture di Pretoria, Sudafrica.

Durante l’insediamento del presidente Mandela nel 1994, il Sudafrica appariva un paese in cui “dominava l’individualismo”. Infatti, mentre i dignitari del continente, giunti per l’evento, indossavano colorati abiti tradizionali che ne mostravano l’appartenenza culturale, i sudafricani indossavano abiti scuri occidentali, che li designavano solo come individui.
Dopo il 1994, le persone d’ogni razza hanno abbracciato l’ideale mandeliano di riconciliazione e cominciato a indossare abiti che rispecchiavano la loro cultura e la loro identità. Questo fenomeno ha risollevato l’industria della moda e provocato l’emergere di nuovi stilisti sudafricani i quali hanno preso ispirazione dalle loro identità culturali. Con queste ultime ci si riferisce all’insieme di culture, sub-culture e differenti sistemi di valore che compongono il panorama sudafricano.
La ricca tradizione culturale di abiti, artigianato e arte è parte integrante della società sudafricana. L’industria della moda, in questo senso, è stata promotrice e parte dell’iniziale sviluppo del Sudafrica, economicamente, socialmente e culturalmente. Inoltre, il ricostruito senso d’identità ha promosso la diffusione di una serie di tessuti – Seshoeshoe, Venda, Shangaan e Ubeshu – che ne hanno, di rimando, amplificano la visibilità.
Dopo l’ultimo decennio, quindi, la locale industria della moda è stata rivoluzionata. Sono stati introdotti al suo interno (e celebrati) elementi tradizionali prima esclusi. Ma non è tutto, poiché, in questi anni, si è prodotto un fenomeno sincretico caratterizzato dalla fusione d’abiti occidentali e tradizionali. Questo processo ha visto il suo coronamento nell’organizzazione delle “settimane della moda” e nella formazione di compagnie del BEE (Black Economic Empowerment) che operano nel campo della moda.
Se si guarda alla moda nell’intero continente, e soprattutto all’Africa Occidentale, è interessante osservare come la popolazione sia orgogliosa d’adornarsi di vestiti tradizionali della propria regione e di decorare e scarificare il corpo secondo un preciso ideale di bellezza.
Se si considera il solo Sudafrica, la moda ha cominciato a costituire un’espressione rilevante dell’identità culturale solo da un decennio, perciò lo stile conservatore occidentale sembra essere ancora il principale codice d’abbigliamento, promosso anche dalle giovani generazioni affascinate dalla moda funky, che prende ispirazione dalla cultura rap e dall’hip-hop.

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