17 luglio 2023

Il colore X

di Francesca Romana Paci

Dal 19 al 23 giugno 2023 presso la sala Bausch del Teatro Elfo Puccini di Milano è andato in scena Il colore X, uno spettacolo composto di tre pièce, scritte da tre differenti autori, prodotto dalla compagnia teatrale Animanera, fondata a Milano nel 2003 da Aldo Cassano, Natascia Curci, Antonio Spitaleri, e Lucia Lapolla, ma attiva e creativa in campo teatrale già da alcuni anni prima della fondazione ufficiale. Animanera ha una forte identità sociale, legata soprattutto al territorio di Milano e dintorni – ma universalizzabile – e ai problemi di rapporti, comunicazione, aspirazioni, sopravvivenza, e, implicitamente, speranza.
L’attività artistica della compagnia, in realtà, è talmente varia da sfidare classificazioni. I componenti del gruppo scrivono di sé: «Animanera insegue la forza evocativa delle immagini […]. Votata alla sperimentazione e alla ricerca, nell’ottica di interpretare e agire il politico, il sociale e il presente, […] [l]’urgenza della compagnia è sperimentare […].»

1958

Nei giorni seguenti le rappresentazioni di Land of Poetry al Teatro Nohma, lo zambiano Martin Llunga Chishimba ha recitato all’Elfo Puccini in tutte e tre le pièce del Colore X. Il titolo dello spettacolo – un bellissimo titolo unificante, ideato dal regista Aldo Cassano – suona intenzionalmente sommesso e nello stesso tempo rappresenta una dichiarazione di credo, principio e scopo. Qualcosa come, grossolanamente, “qualunque sia il colore, gli umani sono tutti uniformemente umani”. Il “colore”, si deve aggiungere, non è solo il colore della pelle, ma si può estendere a metafora di molto altro. Nella prima pièce, La panchina di Davide Carnevali, Martin Chishimba è co-protagonista con Yudel Collazo, cubano; nella seconda, L’uomo con gli occhiali di Greta Cappelletti è protagonista unico, nella terza, Mani blu, di Magdalena Barile, è co-protagonista con Kalua Rodriguez, anche lei cubana. Conviene dire subito che i tre attori, nessuno di loro evidentemente madrelingua, recitano in ottimo e duttile italiano. La regia è di Aldo Cassano, l’aiuto regia di Natascia Curci; le scene sono di Nani Waltz, i costumi di Lucia Lapolla, le luci di Giuseppe Sordi, il sound design di Antonio Spitaleri. Come si vede, il gruppo fondatore continua lavorare unito.

La prima pièce, La panchina, usa la parola “panchina” in almeno due o tre dei suoi significati contemporanei più frequenti: la panchina dove siedono i calciatori, pronti a essere chiamati per una sostituzione in campo; un sedile di veri o soi-disant calciatori; e la panchina come dimora di senzacasa – le situazioni cambiano quasi improvvisamente, senza alcun cambio di scena, solo un breve silenzio. I due attori, Chishimba e Collazo sono entrambi veramente molto bravi, capaci di muoversi su e intorno alla panchina, quasi unico arredo di scena, centrale e imperante; e capaci di adattare la voce alla fluttuazione del narrato e dell’argomentazione.
Nella seconda pièce, L’uomo con gli occhiali, Chishimba è protagonista unico. Recita in piedi davanti a un microfono posto al centro di un palcoscenico altrimenti vuoto. Vestito con eleganza casual, porta un vistoso e farsesco paio di occhiali rosa e violetti. Gli occhiali sono il segno della sua diversità, ma non per vistosità e colori, ma proprio in quanto “occhiali”, e quindi modificatori del visibile, per poi virare a una dimensione metaforica e diventare auto-modificatori individuali del vissuto; e, infine, per generare, o meglio causare un modo metastabile di porsi davanti ai rapporti umani. Chishimba entra nel personaggio con slancio e sottigliezza, mostrando una notevole abilità nel modulare la propria voce e il proprio corpo in nuances e innuendo. Il pubblico coglie i suggerimenti e, se vuole, li elabora.
Nella terza pièce, Mani blu, Rodriguez e Chishimba sono una madre e un figlio, che vivono in una situazione emarginata e disagiata, e mostrano pieghe del loro rapporto, insieme a quotidiani e reiterati tentativi passati e presenti di resistenza al loro stato. Lei sperava tutto per suo figlio – tutto nella forma di un inserimento se non prestigioso almeno borghese nella società; lui non ha raggiunto alcuno di quei traguardi: scrive messaggi salvifici sui muri; è omosessuale e probabilmente si prostituisce vestito da donna. Alla fine, la madre, che lo aiuta a vestirsi, pur soffrendo per i sogni inesauditi, gli dice «Come sei bella!»
Il titolo dello spettacolo, Il colore X, come sopra accennato, già di per sé dichiara la posizione di Animanera. Altrettanto importante il dato di fatto che la compagnia abbia scelto di ingaggiare tre attori neri, e nello stesso tempo renda palese con vari mezzi che tutti e tre potrebbero essere di qualunque colore – la natura umana è una. All’inizio, o meglio prima dell’inizio, una voce fuori scena proclama: «I due personaggi non sono neri – I due personaggi non sono bianchi – I due personaggi non sono blu – I due personaggi non sono gialli – I due personaggi non sono rossi». Il regista Aldo Cassano spiega che questo elenco deriva da una nota autoriale di Davide Carnevali a margine del copione della Panchina. L’autore, dunque, l’ha intesa come intrinseca alla sua pièce, ma la compagnia e il regista la leggono come appropriata e pertinente a tutte e tre le pièce, e decidono di adattarla e porla nella posizione vessillifera di introibo allo spettacolo in toto.
Perché, dunque, la scelta di tre attori neri? La risposta deve restare libera, ma la forza argomentativa della negritudine appare evidente, anche perché contiene una buona dose di pregresso intellettuale, di storia, di critica e di provocazione al presente.
In conversazioni private post-spettacolo, alcuni membri della compagnia hanno fatto notare come sia difficile trovare a Milano, e in Italia, attori neri. Nel caso particolare, Kalua Rodriguez, laureata, tra molto altro, in “Pedagogia teatrale” a Cuba, e diplomata della Scuola del Piccolo Teatro, vive vicino a Milano, dove lavora. Ha fondato e partecipa a varie iniziative teatrali di studio e ricerca, come il “Teatro utile” legato al Teatro Filodrammatici, privilegiando l’indagine e la critica sociale; recita in teatro; e insegna spagnolo all’Istituto Cervantes di Milano. Anche Yudel Collazo, attore, danzatore e studioso gravita su Milano; si laurea a Cuba come “Promotore e operatore teatrale”; lavora presso il Teatro Filodrammatici – con Kalua Rodriguez – e lavora come interno per il Teatro alla Scala. Di Martin Chishimba, attore, scenografo, coreografo, musicista, studioso e scrittore, si è già detto; vive e lavora in Zambia, nella città di Ndola, e, per lavoro, viene spesso a Milano, dove si è diplomato presso la Scuola del Piccolo Teatro. In breve, tutti e tre gli attori hanno curricula interessanti e prestigiosi, che ci impongono riflessioni, scomode, sulla società, sulla cultura e, come dice, proprio all’inizio dell’episodio di Proteo, Stephen Dedalus nell’Ulisse di James Joyce, sulla «Ineluttabile modalità del visibile» – il che, in realtà, è solo la punta dell’iceberg. Per inciso: si potrebbe qui, ma non è il momento, aprire un discorso sul teatro radiofonico e su come quel teatro comunica il visibile.

Il pubblico, ovviamente, può assistere allo spettacolo senza conoscere la vita e la provenienza degli attori, e abbandonarsi, come a diritto di fare, alla «sospensione dell’incredulità» (la «suspension of disbelief», teorizzata da S. T. Coleridge nella sua Biographia Literaria), ma lo scopo della compagnia Animanera è proprio quello di portare il pubblico a riflettere, insieme a loro, sulla situazione umana. Per ottenere quello scopo, però, è necessario non fermarsi mai, e, inoltre, portare il pubblico a teatro. Non è facile, perché il teatro nella nostra contemporaneità non è abbastanza frequentato e certamente non è abbastanza sostenuto dai poteri. Le iniziative, lo slancio, le idee, le sfide – pur non esenti da pecche – non mancano, quelle che spesso mancano sono le risorse economiche. E anche una più diffusa educazione teatrale e insieme più cultura storico-politica.

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03 luglio 2023

Identità africane a confronto: il Canto di Lawino e il Canto di Ocol al Teatro No’hma di Milano

di Francesca Romana Paci

Il 10 e 11 maggio 2023 a Milano è andato in scena al Teatro No’hma – Spazio Teatro Teresa Pomodoro – lo spettacolo Land of Poetry, una produzione dello Twangale Cultural Centre della città di Ndola in Zambia. La regia, il copione, la selezione di brani musicali che accompagnano la pièce sono di Martin Ilunga Chishimba, nato nel 1988, attore, cantautore, scenografo, coreografo, studioso e fondatore dello stesso Twangale Cultural Centre. Chishimba è conosciuto in ambienti italiani per aver studiato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Livia Pomodoro, presidente e direttrice operativa del No’hma, che lo aveva già ospitato nel 2019 con la pièce Broods of Any, dedicata alla grande piaga dei bambini strada, lo ha nuovamente invitato per la stagione 2022-2023.

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La pièce Land of Poetry ha due ipotesti: Song of Lawino e Song of Ocol, due poemetti narrativi, collegati fra loro, dello scrittore ugandese Okot p’Bitek (1931-1982), romanziere, poeta, musicista, studioso, accademico, e, non meno significativamente, atleta, danzatore, suonatore di tamburo e cantore narrativo tradizionale. I poemetti sono stati originariamente scritti in lingua acholi – una lingua Iwo dell’Uganda, per alcuni un dialetto – e poi tradotti in inglese dal loro stesso autore e pubblicati, in inglese, in Kenya, Song of Lawino nel 1966 e Song of Ocol nel 1970, dalla East Africa Publishing House di Nairobi. Ora se ne trovano edizioni congiunte con il titolo Song of Lawino & Song of Ocol. Si ricordano l’edizione di Heinemann del 1986, e quella del East African Educational Publisher del 2013, in Kenya. Entrambe le Song sono state pubblicate anche in acholi.

Okot p’Bitek, nato nel 1931, vive in pieno le prime indipendenze africane e i decenni posteriori, con le difficoltà, gli entusiasmi, le contraddizioni legate alla grande Africa, e, in realtà, già allora, inerenti a una pre-globalizzazione del mondo – non solo economica, anche se condizionata da rapporti economici, ma anche pesantemente culturale, innescata dal Colonialismo stesso e accresciuta dalle due Guerre Mondiali. Okot p’Bitek nasce a Gulu in Uganda, figlio di un padre insegnante scolastico e di una madre nota come storyteller, danzatrice e cantante tradizionale. Completa le scuole superiori in Uganda, facendosi già notare per l’ampia gamma della sua creatività artistica, e poi persegue studi universitari in UK, nelle università di Bristol, Aberystwyth-Wales, e Oxford. Nelle sue opere si legge quanto i suoi incontri con la cultura europea siano stati profondi e nello stesso tempo critici, soprattutto per tutto quello che riguarda il punto di osservazione degli studiosi occidentali dell’Africa, ma anche, in posizione speculare, il punto di vista dei personaggi creati dagli scrittori africani stessi.

Song of Lawino e Song of Ocol sono poemetti relativamente lunghi, raccontati ciascuno integralmente in prima persona; da una giovane donna, Lawino, il primo, da un giovane uomo, Ocol, il secondo. Di fatto sono due monologhi drammatici con qualità intensamente teatrali. Lawino e Ocol sono moglie e marito in un contesto dove la poligamia è consueta. Lawino è una prima moglie. Ocol ha da poco preso una seconda moglie, Clementine, ma è bene dire subito che Lawino non lamenta la presenza di un’altra donna nella vita di suo marito, quanto il confronto con l’altra, colta e occidentalizzata – «Clementine […] aspires / To look like a white woman»; un confronto che Ocol le fa pesare e le fa vivere come sfavorevole a lei stessa. Lawino non accetta senza reagire quello che considera una ingiustizia culturale prima ancora che amorosa e da voce al suo lamento. Le vicende sono ambientate in un luogo preciso dell’Uganda e in un tempo dato, ovvero negli anni di poco posteriori alle prime indipendenze di paesi africani. Lawino accusa: «He [Ocol] abuses me in English / And he is so arrogant […] My husband abuses me together / With my parents / He says terrible things about my mother /And I am ashamed. […] He says we are all Kaffirs / We do not know the ways of God / We sit in deep darkness / […] He says Black People are Primitive […]».

Okot p’Bitek crea con Lawino un modello femminile intensamente locale e immerso in una situazione di rifiuto di ogni cultura esterna. Con Ocol, di contro e simmetricamente, crea un giovane uomo affascinato dalle culture esterne. Entrambi i personaggi sono strumentali alla ricca, stratificata, contrastiva poetica culturale di Okot p’Bitek (contrastiva non contraddittoria), e, come tali, presentano aspetti finzionalmente caricati a scopo di ricerca.

Song of Lawino è composto di tredici sezioni, che sono un vero e proprio catalogo di elementi culturali del paese africano dove è nata – a suo modo Lawino è una accurata antropologa. Song of Ocol è più breve, ma è similmente un catalogo, nel quale Ocol risponde a Lawino, sezione per sezione. Ocol evoca Senghor, Marx, Mozart, la dea Athena con diretto ardore giovanile. Ma non ci si deve far ingannare: non c’è nulla di facile e nulla di ingenuo nei poemetti, anzi, c’è una stratificazione di livelli che richiede molta attenzione.

Okot p’Bitek, che ha una grande cultura sia africana sia occidentale, ha scelto, come studioso di focalizzare l’attenzione sul corrosivo, spesso ultra-enfatizzato problema coloniale e post-coloniale delle identità culturali, della loro permanenza, dei loro confini, della loro stessa legittimità. Un fenomeno in realtà generato da qualunque forma di colonialismo e pseudo-colonialismo sulla terra, intendendo con “colonialismo” l’incontro e il conseguente rapporto chiuso e/o aperto, univoco e/o biunivoco con l’altro, gli altri – problemi mai risolti e tuttora ben vivi nel mondo contemporaneo. In realtà una situazione che si presenta sempre in varia misura nei rapporti “noi” e gli “altri”. La risposta di Ocol alle argomentazioni di Lawino non chiude la questione, anzi la complica, e forse indebolisce gli obiettivi di Okot p’Bitek. Une lettura completa dei due testi si può ascoltare in rete all’indirizzo https://youtu.be/p0JidvB33vM.

Martin Chishimba, creando la sua versione teatrale dei poemetti ha fatto una scelta intelligente, ma certamente non facile. Racconta di aver incontrato Song of Lawino & Song of Ocol nella edizione Heinemann del 1986, mentre frequentava la High School nella città di Ndola nella provincia del Copperbelt in Zambia. Quando nel 2016 fonda il Twangale Cultural Centre, cercando testi che rappresentino storicamente aspetti della cultura africana, si ricorda di Okot p’Bitek, e scrive un arrangiamento teatrale delle due Song – scrive in inglese, che è la lingua ufficiale dello Zambia. È interessante notare che “twangale” in lingua bemba (una delle lingue dello Zambia) vuol dire “let us play”, e che in inglese il verbo “play” copre i significati di “giocare”, “suonare” e “recitare”. Data la lunghezza delle due composizioni, Chishimba spiega di aver limitato la sua versione ad alcune delle sezioni e nello stesso tempo di aver introdotto alcune aggiunte. Prendendo l’avvio dalla scenografia implicita del lamento di Lawino, che nel poemetto evidentemente si rivolge a un pubblico per averne un aiuto, Chishimba crea una sua propria struttura teatrale: Lawino nella versione Twangale parla davanti agli anziani del suo popolo in una assemblea della comunità riunita per ascoltare le sue ragioni e quelle del marito. Nel cast, quindi, oltre Lawino e Ocol, entra il popolo, rappresentato dai quattro musicisti, che suonano, recitano e agiscono in coreografie organizzate insieme agli altri attori; entra un Wiseman, che rappresenta gli anziani; entra la madre di Lawino, che appoggia la figlia, e rappresenta il valore permanente della tradizione; non entra, invece la seconda moglie occidentalizzata di Ocol, Clementine, la cui caratterizzazione è affidata totalmente alle parole di Lawino.

Attori e attrici sono tutti molto bravi sia nella recitazione e movimenti scenici sia nelle loro competenze musicali specifiche. I quattro musicisti sono: Charles Kabwita, percussioni; Derick Chileshe, tastiera; Kombe Mutale, basso; Ng’andu Mweetwa, chitarra. Lawino è Karen Mbolela; la madre è Chanda Henriettah Pule; Ocol è Martin Chishimba stesso; il Wiseman, il “Saggio”, è Amos Chipasha, compositore, cantante, molto seguito in Zambia come T-Low (Terror-League of war; scollegato al rapper tedesco omonimo), interprete hip-hop, rapper, e infine attore. Il personaggio del Wiseman è fondamentale perché assomma in sé funzioni importanti. Ascolta, non giudica, non condanna, quasi come può fare uno psicanalista; sembra avere grande conoscenza sovra-locale e insieme un completo rispetto per il locale; ama la conoscenza; è un negoziatore di pace, suggerisce la riconciliazione, valuta la vita in sé, donde il suo ripetuto refrain «life is good». Lo spettatore può persino congetturare che il Wiseman sia anche una rappresentazione di Okot p’Bitek.

Martin Chishimba dichiara apertamente di aver dato maggiore attenzione alla storia di Lawino e Ocol che alla forma metrica dei monologhi, ma di essere stato colpito dal ritmo della lingua delle Song, che gli è sembrato affine al bit del rap. Il Wiseman e la musica sono le innovazioni più evidenti rispetto ai monologhi di Okot p’Bitek, anche se, letti con attenzione a suono e ritmo, i testi in inglese di Okot p’Bitek si prestano effettivamente molto bene a interpretazioni rap – si deve ricordare che sono stati scritti negli anni Sessanta, prima, sia pure di poco, dell’esplosione del rap. La colonna sonora del play di Martin Chishimba è costituita da canzoni contemporanee, ispirate alla musica tradizionale dello Zambia, intrecciate a influenze jazz, ska, reggae, rock, e non solo.

Le canzoni sono composte da Amos Chipasha e da Martin Chishimba stesso. A un certo punto irrompe un breve brano della Eine kleine Nachtmusik, eseguito alla tastiera da Derich Chileshe. La citazione è dovuta perché la Serenata K525 di Mozart compare anche in Song of Ocol. Per inciso: Okot p’Bitek ha una grande conoscenza della musica classica occidentale, e in particolare di Mozart, dal cui Flauto magico, che ha studiato, ha tratto ispirazione per alcune sue creazioni.

La musica non solo accompagna, ma sembra provocare i movimenti coreografici degli attori. Un aspetto interessante è l’abbigliamento: i due personaggi femminili, Lawino e sue madre, indossano il tradizionale chitenge, un grande colorato rettangolo di cotone che avvolge la figura, analogo a molti altri  femminili africani; Ocol e i suonatori/popolo portano abiti non connotati, universalmente contemporanei e informali; il Wiseman, interpretato da un alto e smilzo Amos Chipasha, è vestito di bianco, con un insieme di pantaloni, bretelle, camicia e cravatta che ricorda un neo-dandy degli anni Trenta in UK e in US, e che trasmette qualcosa di permanente fuori del tempo – in una iconografia cinematografica statunitense piuttosto nota, potrebbe rappresentare un angelo; e potrebbe anche far pensare a un surreale intervento di p’Bitek. Land of Poetry si può vedere integralmente in rete al link https://www.youtube.com/watch?v=_mtBdg6LEl8.

In Okot p’Bitek e in Martin Chishimba sono le donne, fatte salve le gradazioni ironiche dei due autori, a dare corpo alla tradizione, mentre gli uomini sono favorevoli alla innovazione – il Wiseman suggerisce equilibrio. Impossibile non ricordare, però, che in scrittrici come Mariama Bâ, Ama Ata Aidoo, Tsitsi Dangarembga, Yvonne Vera sono le donne ad aspirare alla innovazione e gli uomini a resistere al cambiamento.

Nel retroterra di Okot p’Bitek, e di conseguenza in quello di Martin Chishimba, ci sono testi importanti per lo studio dei rapporti dell’Africa con l’Occidente. Non potendo ricordarli tutti, ci si limita a qualcuno che sembra significativo. Uno dei più precoci è il romanzo Mister Johnson (1939) dell’irlandese Joyce Cary, dove un giovane nigeriano è letteralmente innamorato della cultura inglese, che cerca di imitare il più possibile; il romanzo scava e mostra aspetti razzisti sia consci sia inconsci, e la storia finisce tragicamente. Dopo la Prima Guerra Mondiale arriva l’intensità di Frantz Fanon, con Peau noir, masques blancs (1952), opera che nessuno scrittore africano potrà mai permettersi di ignorare e/o dimenticare – certamente non la ignora Okot p’Bitek. Ci si concede di menzionare anche Nini, mulâtresse du Senegal (1954) di Abdoulaye Sadji, un romanzo discusso dallo stesso Fanon in Peau noir, masques blancs con attenzione antropologica, sociale, e, data la sua professione, psichiatrica.

Non meno importante l’influenza di Chinua Achebe, vero capostipite della narrativa africana. A partire da Things Fall Apart (1958-1959), Achebe affronta ripetutamente il problema dell’incontro, scontro, e confronto tra le culture africane e le culture occidentali, tanto da costituire un modello inevitabile e permanente nel tempo. Lo ha subito anche l’ivoriano Ahmadou Kourouma, sia nei romanzi sia nei suoi straordinari testi per bambini, dove descrive e spiega l’organizzazione sociale – cacciatori, griot, fabbri, e altro – di una comunità africana nel suo paese e in stati limitrofi. 

Pur con tutte le aggiunte e complementi teatrali, nel remake di Martin Chishimba, come era in Okot p’Bitek, il centro focale è il confronto tra culture e la ricerca di come rispettarle entrambe in una realtà inevitabilmente plurale e contraddittoria da quando il Colonialismo le ha irreversibilmente sommate e per molti aspetti fuse. 

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27 luglio 2017

Food, fashion, design: imprese creative tra Italia e Africa

Più volte la moda attinge dal ricchissimo patrimonio di colori, stampe e suggestioni del continente africano. Anche il design, in particolare l’arredamento, e la cucina si ispirano ai prodotti e alle tradizioni di un intero continente che riunisce un’incredibile varietà di climi, culture, religioni. L’Africa presenta una propria esuberanza creativa e artistica, ed è terra di origine di molte persone che oggi vivono, studiano e lavorano in Italia. Per questo motivo, possono nascere opportunità di scambio interculturale e di impresa creativa. Per identificare e approfondire queste possibilità di sviluppo di modelli di business ispirati dall’incontro tra imprenditorialità e creatività italiana e africana, a Milano nasce la prima Summer School dell’Università Cattolica del Sacro Cuore “FOOD, FASHION, DESIGN: IMPRESE CREATIVE TRA ITALIA E AFRICA”, organizzata da ALTIS (Alta Scuola Impresa e Società dell’Università Cattolica, ModaCult). Il corso inizia a settembre e le iscrizioni sono aperte a chiunque sia interessato a indagare, come sostiene Emanuela Mora, Direttore Scientifico della Summer School, «le ricadute socio-economiche sia sul territorio italiano, in termini di inclusione, integrazione e ricerca di nuove opportunità di business, sia nei Paesi africani, in termini di sviluppo locale e creazione di nuove attività e posti di lavoro.»

Per maggiori informazioni sulla Summer School: http://bit.ly/2rZ5rpe

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01 ottobre 2015

E’ iniziato il SUQ delle culture a Milano!

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Arriva per la prima volta a Milano il SUQ delle culture, un’iniziativa nata a Genova nel 1999 che comprende percorsi creativi e workshop – dedicati a Recitare, Cucinare, Abitare, Cucire, Disegnare e Suonare il Dialogo – e un grande bazar delle culture che si pone come vetrina dei temi dell’integrazione attraverso il teatro, la musica, l’arte, la cucina e l’artigianato.

Da domenica 27 settembre a domenica 4 ottobre 2015, il SUQ delle Culture, promosso dalla Fabbrica del Dialogo, regala alla città otto giorni di teatro, musica, danza, laboratori, concerti, spettacoli e incontri su ambiente e mondialità in una teatrale scenografia che ospita differenti cucine e spazi espositivi con artigianato e prodotti da tutto il mondo.

Seguendo un ricco e colorato palinsesto, ogni giorno è possibile partecipare a laboratori artigianali, approfondire le buone pratiche su temi eco-sostenibili, seguire workshop e dimostrazioni legate al cibo e alla sua storia.

Ma soprattutto al Suq delle Culture è possibile conoscere tradizioni ed esperienze diverse dalle proprie immersi nell’atmosfera conviviale del teatro-mercato, camminando, mangiando e acquistando prodotti artigianali unici tra gli stand del grande bazar, da sempre simbolo di incontri e scambi tra genti e culture, tradizioni e merci.

Il programma completo del festival è disponibile sul sito della Fabbrica del Dialogo.

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03 maggio 2013

Nuovo appuntamento con il Festival del Cinema Africano, d’Asia e d’America Latina

La 23° edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina, si terrà a Milano dal 4 al 10 maggio 2013. Tappa fondamentale dal 1991 per tutti gli appassionati di cinema, il festival rappresenta un’occasione per far conoscere la cinematografia, le realtà e le culture dei paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina.
Con la partecipazione di più di 50 nazioni e la proiezione di circa 80 film e video, il festival vuole mettere in evidenza le potenzialità della creatività artistica dei tre continenti rappresentati ed è volto a stimolare uno scambio culturale tra artisti, giornalisti, pubblico e istituzioni coinvolte in ambito cinematografico.
Al Festival Center, il punto di incontro per gli ospiti e il pubblico, segnaliamo la mostra Creative Syria, che propone i messaggi di artisti e comunicatori siriani contro la violenza e la distruzione che stanno colpendo il loro paese. Per maggiori informazioni sull’evento, consultare il sito http://www.festivalcinemaafricano.org/index.php

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25 settembre 2012

Africami. Volti e storie della città verso l’expò

Il 2 ottobre, alle ore 18.30, si aprirà la Settimana della Comunicazione di Milano, che fino al 7 ottobre proporrà diversi seminari, workshop e mostre sui temi dell’open journalism, self book, blog, crowd creativity, foto e video making, social web tv e tutte le nuove forme di comunicazione che hanno segnato il passaggio dalla logica dello user alla logica del maker.

Durante i sette giorni di iniziative ed eventi, sarà possibile assistere alla mostra “GuardaMi, volti e storie della città verso l’Expo: AfricaMi”, organizzata dall’Istituto Italiano di Fotografia, in collaborazione con l’Associazione Assaman. L’esposizione, curata da Simona Cella, Massimo Bassano e Laura Crespi, proporrà al pubblico un reportage fotografico attraverso cui i fotografi dell’Istituto Italiano di Fotografia documentano le molteplici culture che convivono nella città di Milano.

Ad introdurre la mostra la performance musicale di Robert Bela Hounhinto, curata dalla Compagnia Africana e un buffet con piatti tipici senegalesi.

Consulta il programma della Settimana della Comunicazione

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20 settembre 2011

Tramedafrica, scene contemporanee dall’africa sub sahariana Milano 17-25 settembre 2011

LES LARMES DU CIEL D’AOUT / LACRIME DEL CIELO D’AGOSTO di Aristide Tarnagda regia Ados Ndombasi con Muguy Kalomba, Loic Bescond, Starlette Mathata, Marithe Mitongo musica Loic Bescond disegno luci Wedou Wetungani produzione WAATO -BALABALA.

È iniziata sabato 17 settembre l’undicesima edizione del festival Tramedautore che da molti anni rappresenta oramai uno degli eventi più importanti del settembre milanese. Questa volta Tramedautore, ribattezzato per questa XI edizione Tramedafrica, si delinea attraverso due grandi momenti storici che hanno segnato l’intenso rapporto tra l’Europa e il Continente Africano: cinquant’anni dopo le indipendenze dei diversi stati e vent’anni dopo la fine dell’Apartheid in Sudafrica.

Il festival, organizzato da Outis, ha dal 2009 come protagonista l’Africa e la sua storia, raccontata attraverso il teatro dall’“Intelligenza africana che vive in Lombardia”, che coglie l’occasione per presentare e raccontare il proprio lavoro al pubblico attraverso la letteratura, la danza e la musica.

Questa nuova edizione del Festival è inoltre coronata da un’importante iniziativa che vede come protagonisti i migranti africani in Italia: Carovana4Africa, attraverso un progetto promosso dall’associazione socio-culturale Sunugal, presenta il concerto di Baba Sissoko, polistrumentista del Mali (domenica 18) accompagnato dagli African Griot; a questo si aggiunge uno spettacolo di danza di Mama Diop, ballerina e coreografa senegalese (sabato 17); incontri tematici; uno spettacolo sul turismo responsabile e altro ancora.

Per maggiori informazioni: http://tramedafrica.outis.it

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