24 dicembre 2014
La “maledizione” dell’albero di acacia
Mancano poche ore a Natale e forse alcuni di voi sono alla ricerca di un regalo all’ultimo minuto. Perché non entrate il libreria e invogliate amici e parenti alle lettura comprando loro un bel libro? Magari potreste scegliere un romanzo sull’Africa, identificarlo in mezzo agli altri è semplice: sulla copertina ha la foto di un albero di acacia. Questo sostiene Simon Stevens, un lettore che ha notato come da Cuore di Tenebra di Joseph Conrad a La mia Africa di Karen Blixen, fino a Metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie i romanzi che parlano dell’Africa sono destinati ad avere in copertina l’albero di acacia.
Gli editori optano spesso per quest’immagine alla luce arancione del tramonto, perpetrando nell’immaginario collettivo l’idea dell’Africa come continente selvaggio e incontaminato, così lontana dalla realtà attuale da essere fastidiosa. Africa is a Country, il blog fondato da Sean Jacobs per sbarazzarsi della narrativa sull’Africa dominante nei media occidentali, ritiene che l’albero di acacia sia il simbolo scelto da qualcuno la cui idea del continente africano è la stessa di quella che un bambino può farsi guardando il Re Leone.
Buone feste e buone letture!
Parole chiave : Africa is a Country, albero di acacia, Chimamanda Ngozi Adichie, Cuore di Tenebra, La mia Africa, Letteratura africana, Metà di un sole giallo, Sean Jacobs, Simon Stevens
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Presentazione dell’articolo “Qualche nota sull’abbigliamento africano e la letteratura narrativa post-coloniale”, pubblicato sul numero 69-70 di Africa e Mediterraneo a firma di Francesca Romana Paci, docente di Inglese e Letterature post-coloniali presso l’Università del Piemonte Orientale.
Il tema dell’abbigliamento e delle modalità del vestire in Africa, così come si presentano nell’opera letteraria di alcuni scrittori africani, è di considerevole complessità diacronica e sincronica.
Sul piano diacronico, si può riconoscere un primo gruppo, quello degli scrittori bianchi che descrivono abbigliamenti e costumi africani come diversi e primitivi, comunque esotici. Di un secondo gruppo possono fare parte scrittori contemporanei, sia bianchi sia neri, che scelgono, la modalità antropologica e primitivistica (Chinua Achebe e André Brink).
Sul piano sincronico il problema si complica ulteriormente, perché l’abbigliamento diventa un elemento che è parte della politica, della struttura sociale, e dell’economia. Certamente si può azzardare l’indicazione dell’esistenza di un gruppo prevalente che favorisce, come segno di conquista sociale e di diritti, un abbigliamento di derivazione europea contemporanea (Léopold Sédar Senghor, Yvonne Vera, Fatima Mernissi etc.).
Ma l’abbigliamento europeo è anche sottoposto a critica e a rappresentazioni negative, soprattutto in connessione con la realtà economica: si trova, per esempio, l’elemento delle charities, gli abiti usati che soprattutto Europa e Stati Uniti da decenni mandano in Africa. La condanna dell’abito europeo entra soprattutto nella letteratura politica, (Mobuto), ma è certamente anche legata alla moda, si pensi alle camicie di Mandela. Mentre, con una incursione nel campo della poesia, molto più complessa è la condanna dell’abito europeo in Léon Damas, che non è tecnicamente africano, ma è incluso da Senghor nella sua Anthologie de la nouvelle poésie nègre.
E’ interessante, inoltre, notare la pervasiva presenza nella narrativa africana delle uniformi, delle divise militari, paramilitari e persino scolastiche; un elemento che accomuna la maggior parte degli scrittori africani e che ha una palese radice coloniale, ma anche un certo numero d’altre implicazioni politiche più o meno contemporanee, oltre che innegabili elementi distopici.
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