08 novembre 2010

10/11/2010- L’esecuzione di Ken Saro-Wiwa: la distruzione di una bellissima testa

email_view_relatedEvento: Ti ricordi di Ken Saro-Wiwa?

Dove: Brancaleone, via Levanna 11, Roma.

Quando: Mercoledi 10 novembre 2010, ore 20.

Informazioni: Il 10 novembre 1995 il regime militare nigeriano, nonostante le pressioni internazionali, impiccò lo scrittre Ken Saro-Wiwa. Era uno scrittore molto prolifico e popolare nel suo paese, e si era impegnato come ambientalista e attivista per la difesa dei diritti umani, diventando leader del MOSOP (Movimento per la Salvaguardia del Popolo Ogoni) movimento che si batteva per difendere gli Ogoni contro i disastri ecologici causati dalle compagnie petrolifere.

Con quell’impiccagione, il regime nigeriano non si rese responsabile solo di una ignobile violazione dei diritti umani e della libertà del popolo Ogoni di difendere la propria vita e la propria terra. Spegnendo quella vita, togliendo ossigeno a quello straordinario cervello, hanno distrutto un bene prezioso, fonte di orgoglio per la Nigeria. Hanno soppresso una delle più alte voci della letteratura africana, un grande che ha dato tanto al patrimonio letterario mondiale e che chissà cosa ancora avrebbe potuto dare.

Ho amato molto “Foresta di Fiori”, la raccolta di racconti pubblicata da Edizioni Socrates nel 2004, dove la società nigeriana sia rurale che urbana viene raccontata con ironia e amarezza, con una prosa diretta e incisiva che sembra non lasciare molte speranze a miglioramenti o rinnovamenti dall’interno. Anche le figure positive, che vedono e cercano di resistere o di cambiare le cose, escono sconfitte. Ricordo che leggendolo ho pensato: per forza la gente fa di tutto per emigrare. Hanno un bel da dire “sviluppatevi, prendete l’iniziativa, lavorate 12 ore al giorno come un piccolo imprenditore italiano, e vedrete…” Ma chi ci ci può riuscire in quelle condizioni di corruzione, povertà civile, strapotere delle autorità? Questo ci diceva Saro-Wiwa, senza perdere tempo in vittimismi o stereotipate accuse all’Occidente. Lui si rivolgeva agli africani: delle élite e non, cercando di spingerli a prendersi le loro responsabilità.

Copio qui un brano del racconto “E giù, le stelle”, che mi sembra emblematico di questa situazione di impotenza e solitudine di chi è consapevole della situazione e vuole lottare per migliorarla.

Quella mattina Ezi arrivò agli uffici del ministero degli Affari esteri con quarantacinque minuti di ritardo. Fu uno dei primi a entrare. L’ascensore non funzionava; ancora una di quelle interminabili interruzioni di corrente – una peculiarità della nazione. Dovette fare a piedi le scale buie e sporche fino all’ottavo piano, dove si trovava il suo ufficio. Salì lentamente, sforzandosi di ignorare la sporcizia delle scale, che non venivano pulite da mesi: i muri erano senza pittura e pieni di graffiti e ogni pianerottolo era cosparso di schizzi di cataro. Si sentì sollevato quando alla fine raggiunse l’ottavo piano. (…)
Eliza, la dattilografa, stava mangiando rumorosamente su un piatto smaltato. La stanza era impregnata dell’odore di peperoncino, olio di palma rossa e cipolle. Ezi trattenne il respiro per un secondo.
“Eliza?”
“Signore” rispose.
“Sarebbe meglio che spruzzassi un po’ di deodorante appena finisci di fare colazione. Sarei più contento se consumassi i tuoi pasti a casa tua o nella mensa del personale”.
“Sì, signore” rispose e mise via la colazione senza averla terminata. Ezi andò a grandi passi nella stanza adiacente, che era il suo ufficio.
Non appena si mise seduto, sentì Eliza mormorare sottovoce parole che non riusciva a capire. E la risata sommessa di Ade. Aggrottò le sopracciglia. Loro pensavano che fosse pedante, fosse scemo. Lo sapeva benissimo. (…)
Mise la ventiquattrore sul tavolo e si guardò intorno. L’ufficio era pulito e ben tenuto. A veva sempre insistito che fosse pulito in modo impeccabile. Aveva perfino mostrato come spolverare la stanza ad Abel, il quale non sembrava aver gradito molto: troppo lavoro. Oltretutto, nessun altro in tutto il palazzo si interessava minimamente alla pulizia del proprio ufficio. Ezi voleva dare a vedere di essere diverso: questo pensava Abel e lo aveva detto ai suoi colleghi. Più di uno aveva detto a Ezi che la sua mania per l’ordine era considerata una malattia. Ma a lui non importava. La sua stanza era un rifugio, un rifugio dalla sporcizia delle scale, dalla puzza dell’ascensore, dal degrado dell’edificio.

Mercoledi 10 novembre a Roma un evento celebrativo ricorderà l’anniversario dell’impiccagione dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, autore di Sozaboy, avvenuta nel 1995 ad opera del regime militare di allora. L’iniziativa vuole riportare alla memoria il coraggio civile e la generosità di uno straordinario artista e intellettuale che denunciò lo scempio dell’ecosistema del Delta del Niger a causa dello sfruttamento petrolifero selvaggio.

Sandra Federici

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14 luglio 2009

Le parole di Obama in Ghana, c’è chi le aveva già dette

Tanto per cominciare, ha detto che nelle sue vene scorre sangue africano, e che in lui si uniscono la tragedia e la vittoria dell’Africa. La tragedia appartiene soprattutto al nonno, un keniano che lavorava come “boy” per i colonialisti britannici, e che fu imprigionato perché lottava contro il colonialismo. Ha precisato che non era un grande eroe (“era nella periferia della lotta di liberazione del Kenya”), per dire che era un uomo comune che faceva la sua parte. Un primo messaggio.

Nella vita di suo nonno, ha continuato, “il colonialismo non è stato solo la creazione di un confine innaturale o condizioni ingiuste per il commercio, è stato qualcosa di sperimentato personalmente, giorno dopo giorno, anno dopo anno.” Il che equivale a dire: so di cosa parlo.
E anche la storia di suo padre, da pastore in un villaggio a studente in una università americana, è emblematica di un momento di grandi speranze per l’Africa.

Insomma, a Barack appartiene la vittoria, ma anche la tragedia, perché ha vinto risalendo da una situazione personale e famigliare estremamente sfavorevole, in una epopea entusiasmante che tutti conosciamo.

Dopo questo inizio, azzeccatissimo per tagliare le gambe a ogni contestazione, ha pronunciato una serie di constatazioni chiare e coraggiose, che il discorso terzomondista non si azzarda mai a fare emergere.

Le parole di Obama sono state accolte come incredibilmente nuove, ma io le avevo già sentite tante volte. Le hanno dette Soni Labou Tansi, Ahmadou Kourouma, Nuruddin Farah, Ken Saro-Wiwa, Wole Soyinka nei loro romanzi e racconti pubblicate soprattutto negli anni 80. Le hanno scritte chiaramente, senza nessun distinguo o premessa o captatio benevolentiae. Africani che parlavano agli Africani e denunciavano che la responsabilità dei mali presenti dei loro paesi era degli Africani che avevano potere (un qualsiasi straccio di potere: politico, poliziesco, economico…) e lo usavano per il loro vantaggio invece che per quello del popolo.

Ma incredibilmente questo punto di vista non è mai passato nel discorso corrente sulla situazione del continente africano. E questo ha avuto conseguenze gravissime nella presa di responsabilità concreta da parte delle élite africana.
Adesso che è uscito dalla bocca di Obama, forse le cose cambieranno… Intanto, appaiono improvvisamente decrepite le star degli aiuti Bob Geldof e Bono Vox.

Faccio qui solo un elenco dei concetti espressi da Obama, come promemoria.
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