17 gennaio 2019

I proverbi africani. Un viaggio tra antropologia e fotografia

I proverbi appartengono a tutti i continenti e a tutte le culture, e possono essere utilizzati per diversi motivi sociali, culturali, etici: ad esempio, possono essere formule verbali per risolvere discussioni collettive, moniti che richiamano alla consuetudine, oppure possono avere una semplice valenza narrativa. I proverbi sono, infatti, strutture del linguaggio che hanno una potente forza oratoria e arricchiscono il discorso, introducendo immagini dalla forte carica espressiva e metaforica. Le fotografie di Marco Aime, uno dei maggiori e più influenti antropologi italiani e docente all’Università di Genova, sono accompagnate, infatti, da queste brevi forme linguistiche appartenenti alle culture africane, e sono raccolte nel libro Il soffio degli antenati. Immagini e proverbi africani (Einaudi, Torino 2017).

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Durante i suoi viaggi in Mali, Ghana, Benin, Malawi, Tanzania, Congo e Algeria, Aime ha realizzato una serie di immagini che evocano alcuni aspetti fondamentali del mondo africano: la vecchiaia, la solidarietà, la famiglia, l’amicizia. Il titolo del libro, ispirato ai versi di Birago Diop, poeta senegalese che aderì al movimento della negritudine, indica la volontà di catturare e reinterpretare una tradizione antica attraverso l’icastica saggezza dei proverbi. Al Museo Africano di Verona è ospitata invece una sua mostra fotografica (27 dicembre 2018 – 31 gennaio 2019, organizzata da Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura di Genova) intitolata Afriche: volti e proverbi, che racconta gli incontri del fotografo con i luoghi e le persone che rimangono ancorati a simboli, leggende e storie che scandiscono le loro esistenze da millenni.

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Aime fa compiere al visitatore un viaggio nella complessità e diversità del continente attraverso settantasette scatti in bianco e nero, tentando di restituirne la vitale bellezza attraverso il patrimonio culturale orale delle tradizioni africane. Si sviluppa così poeticamente una narrazione di microstorie, spesso riassunte nel volto di un bambino o in un luogo carico di mistero, dove i proverbi, come spiega l’antropologo, «vengono dal passato e forse rappresentano l’ultimo soffio di una storia che finisce, ma la cui forza evocativa sopravvivrà ancora, se sapremo ascoltarli».

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24 marzo 2010

25/03/2010- Arte e antropologia a Torino

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Evento: All my friends are dead.

Dove: Torino.

Quando: Dal 25 marzo al 31 agosto 2010.

Informazioni: L’antropologo Ivan Bargna presenta a Torino con gli artisti di Aterazioni Video un primo lavoro che hanno fatto insieme in Camerun, a Bandjoun. Il tema sono gli zombie e i vampiri, cioè la stregoneria che nell’Africa contemporanea, tradizionale e globalizzata, sta prendendo sempre più spazio presso la popolazione, sempre oppressa dal problema della povertà.

Così Ivan Bargna ci ha mandato questa sua scheda che andrà in catalogo.

21×21. 21 artisti per il 21° secolo
A cura di Francesco Bonami
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino
25 marzo – 31 agosto 2010

Il film All my friends are dead, 2010 nasce dall’esperienza vissuta dagli artisti durante la loro permanenza nel villaggio di Bandjoun, nel Camerun occidentale, accompagnando la spedizione scientifica dell’antropologo Ivan Bargna. Un periodo in cui gli artisti hanno potuto familiarizzare con la società e la cultura dei Bamileke, la cui apertura alla modernità (si tratta di commercianti sempre alla ricerca di nuovi affari) si accompagna a un forte attaccamento alla tradizione.

Così il re di Bandjoun anche se viaggia in Mercedes, continua ad avere il proprio doppio spirituale nel leopardo e a far cadere le piogge che rendono fertili i campi. E le maschere elefante non hanno smesso di danzare anche se parlano al cellulare o portano le Nike.

Accade così che con la crisi economica zombie e vampiri guadagnino terreno, perché la stregoneria non è la sopravvivenza di un oscuro passato, ma il linguaggio con cui si tenta di dare un senso alla miseria e alle ingiustizie sociali di un mondo globalizzato.

Nel girare un Horror movie con un cast locale e nell’utilizzare il set e il backstage come un campo etnografico, Alterazioni Video e Ivan Bargna hanno fatto della paura il loro oggetto di indagine, inquietando l’incerto confine, fra realtà e finzione, fra emozioni personali e performance attoriali, fra arte e antropologia.
Da Hollywood a Bandjoun gli zombie sono parte di un immaginario globale condiviso, ma anche una presenza quotidiana e concreta nelle locali pratiche di stregoneria. Sono gli stessi zombie? E’ la stessa paura?

Alla visione del film e’ accompagnata l’installazione Princesse sur la sardine, 2010 composta da 20 materassi in gommapiuma, le cui fantasie ripropongono elementi ricorrenti e significativi raccolti dal collettivo a Bandjoun.

Ispirati alla visione dell’artista Ghanese El Anastsui, secondo cui l’immaginario riprodotto sui tessuti e sulle vesti ha una valenza, nella cultura africana, paragonabile a ciò che i monumenti rappresentano nella cultura occidentale, Alterazioni Video trasforma le sedute per la visione del film in veri e propri elementi scultorei. Info.

[Foto: Alterazioni Video, All our friends are dead, 2010 – Performance nella strada
principale di Bandjoun (foto Ivan Bargna)]

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24 marzo 2010

24/03/2010- Seminario antropologico sul furto di statue del Kenya ad Urbino

Evento: Il lungo viaggio di ritorno a casa: Furto e rimpatrio delle statue degli antenati (Vigango) in Kenya.

Dove: Università di Urbino, Facoltà di Scienze Politiche

Quando: mercoledì 24 marzo 2010, ore 15.

Informazioni: Per il ciclo “Le memorie trafugate”, Urbino- Africa Seminars organizza un seminario per discutere sulla vicenda del furto e del rimpatrio delle statue degli antenati in Kenya. Relatrice del seminario sarà la professoressa Linda Giles, Antropologa Culturale all’Illinois Wesleyan University. Ad introdurre invece, la professoressa Francesca Declich dell’Università d’Urbino. Info.

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07 luglio 2009

Il razzismo sottile, la sopravvalutazione della capacità di sbagliare

in: Cultura

Di Biancoenero

Mi raccontava un’amica di un esperimento che alcuni mediatori culturali hanno realizzato a Milano. Nella città lombarda viveva un gruppo di migranti provenienti da un villaggio africano che non ricordo, i quali regolarmente mandavano le loro rimesse a casa. Questi migranti avevano capito che se nel paese fossero state spedite delle canoe anzichè del denaro, l’economia, che in quel momento giaceva in condizioni disperate, sarebbe migliorata significativamente. Così si decise di trattenere parte delle rimesse, fino a ottenere la somma per l’acquisto delle canoe; dopo di che invece dei soldi si sono mandate le barche in Africa. Dopo un po’ di tempo i migranti sono tornati al loro paese e hanno trovato le canoe del tutto inutilizzate e il paese che versava nella solita miseria estrema.

Che cosa era successo? Gli anziani del paese avevano avuto la sensazione che se fosse iniziata la pesca con l’uso delle canoe avrebbero perso la loro posizione di comando e quindi avevano impedito ogni azione. Così l’amica commentava che gli operatori avevano “sbagliato”, perchè non avrebbero previsto questa reazione da parte degli anziani della comunità.

La situazione è molto complessa e occorrerebbe conoscere tutti i dati per formulare un giudizio meditato. Però credo che sia importante evitare alcuni errori nella valutazione di questo tipo di episodi. Si tende ad attribuire agli operatori occidentali il libero arbitrio di scegliere diverse strategie, mentre i poveri “negri” sarebbero del tutto succubi della loro “Cultura” e si comporterebbero come una sorta di macchine automatiche. In questa storia a me verrebbe da biasimare più il conservatorismo degli anziani del villaggio che la poca lungimiranza degli operatori.

Uno dei fenomeni tipici della sopravvalutazione di se stessi, messa in luce dalla recente psicologia delle illusioni cognitive, consiste proprio nel considerare i nostri errori come evitabili, attribuendo invece quelli degli altri alla loro indole! L’atteggiamento dell’amica, che a prima vista sembrerebbe anti-occidentale e favorevole alla cultura del villaggio africano, in realtà nasconde una sottile forma di razzismo culturale, come se la cultura del villaggio sia una sorta di monade impenetrabile che guida deterministicamente i comportamenti degli abitanti del villaggio, mentre noi avremmo la libertà di comportarci in modi diversi. Sarà sempre troppo tardi quando cominceremo a considerare gli stranieri come persone e non come pedine portatrici di una cultura altra!

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