«A 6-7 anni ho lasciato la mia casa e ho vissuto come bambino di strada in Tanzania per 10 anni. Dico ‘in Tanzania’ perché non sono stato in un solo luogo, ho girato in varie città.»
Samwel Japhet è un giovane performer tanzano che sta velocemente costruendo una carriera a livello nazionale e internazionale, ma ha iniziato da una condizione estremamente svantaggiata. Un’infanzia e un’adolescenza durissime e pericolose, che lui ha saputo trasformare nell’esperienza fondamentale per il nutrimento della sua ispirazione. L’ho incontrato a Dar es Salaam.S.F. Perché hai lasciato la tua famiglia?
S.J. Sono fuggito perché venivo picchiato molto. E così sono finito in strada, a vivere con altri bambini, era pericoloso e difficile ma mi sentivo comunque meglio lì che nella situazione di abuso che c’era a casa. Dopo essermi spostato in vari luoghi, nel 2009 sono arrivato a Dar es Salaam e nel 2010 ho incontrato Makini, un’organizzazione non profit che aiutava i bambini di strada: ci raccoglievano, ci facevano giocare, nuotare e ci offrivano anche una terapia per superare i traumi della vita in strada. Dopo un po’ hanno cominciato a portarci in vari spazi pubblici, tra cui centri culturali e artistici, così ci hanno introdotto all’arte, di cui noi non sapevamo niente. Hanno organizzato formazioni nell’arte performativa: workshop di teatro, musica, danza, e abbiamo fatto performances comunitarie.
S.J. Sempre in strada. Loro ci insegnavano a vivere insieme e ad aiutarci a vicenda mentre vivevamo nelle strade. Makini era uno spazio per riflettere e metterci in una relazione migliore tra noi. Era una vita folle, quella in strada, ma è stata anche l’inizio della mia carriera artistica e continua a influenzare anche oggi il mio lavoro. Quel periodo ha formato le mie aspirazioni e prospettive, ho imparato che la vita, anche se fragile, è un viaggio in costante evoluzione in cui abbiamo il potere di formare nuove realità nonostante le difficoltà che affrontiamo, personalmente e nella società. E io ho deciso di farlo attraverso l’arte.
Nel 2013 ho fatto un’audizione per entrare nel programma triennale della MUDA Africa Dance School in Tanzania e sono stato ammesso. Sono stato formato professionalmente dal 2014 al 2016 e mi sono diplomato. In questo periodo ho avuto il privilegio di collaborare con artisti internazionali, tra cui Nora Chipaumire, una coreografa e performer nata in Zimbabwe e basata a Brooklyn, che ha sfidato gli stereotipi dell’Africa, del corpo nero danzante, e mi ha introdotto a un nuovo modo di pensare, a scoprire la mia voce artistica personale, a definire un mio primo manifesto artistico. È stato un momento fondamentale, che mi ha indicato una prospettiva e acceso una grande ambizione dentro di me a perseguire una carriera come danzatore e coreografo. E mentre entravo più profondamente nel mondo della danza, diventavo più curioso su quanto si poteva fare con la danza e le varie forme artistiche, allargando i miei interessi.
Intanto, nel 2015, con Tadhi Alawi ho co-fondato una compagnia di danza, Nantea, che ora è la mia compagnia.
S.F. Qual è la vostra attività come gruppo?
S.J. Facciamo progetti comunitari, collaborazioni interculturali, produzioni, tournée. Abbiamo prodotto lo spettacolo “YIN-YANG“, che stiamo portando in tour fuori dalla Tanzania.
Usiamo la danza come un’espressione artistica per raccontare storie, riflettere su temi sociali e sull’esperienza umana, sul nostro tempo e sulla politica. I temi che esploriamo sono gli squilibri sociali, la dignità, il conflitto, memoria e uguaglianza, creando spazi in cui il pubblico può riflettere e immaginare futuri alternativi. Vogliamo sviluppare la scena della danza tanzaniana e ispirare i giovani a diventare ambasciatori di crescita e cambiamento sociale, realizzare un lavoro di alta qualità e costruire una cultura in cui l’arte abbia un valore proprio.
S.F. Quanti anni hai?
S.J. Non lo so! (sorride) Penso di avere 25-26-27 anni.
S.F. Hai ripreso i contatti con la tua famiglia? Sanno del tuo percorso?
S.J. Non vedo ragioni per ricreare una relazione. Loro non hanno nessuna idea della mia vita di adesso. Quando stavo in strada, cambiavo sempre nome per non essere ritrovato, anche se non credo che mi cercassero. Comunque non avevo documenti, e mi sono creato un nome e un cognome scelti da me. Poi ho avuto i documenti.
S.F. Hai fratelli, sorelle?
S.J. Ricordo che avevo una sorella, ma lei stava spesso via con mia madre. Mia madre era spesso in viaggio, credo per lavoro, e se la portava con sé. Comunque ricordo bene di non avere avuto una stretta relazione con mia madre.
S.F. Riesci a vivere autonomamente?
S.J. Sì, vivo con l’arte, la danza, l’organizzazione di performance. Con la compagnia Nantea, io e Tadhi facciamo progetti, ed è il nostro lavoro. Siamo stati in vari festival e teatri nei Paesi Bassi, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Germania, Mozambico, Portogallo, Etiopia. Ad esempio nel 2022 abbiamo voluto invitare artisti da altri paesi africani e dall’Europa per lavorare insieme, e abbiamo fatto un progetto finanziato dall’Unione europea, per due anni. Si intitolava UMOJA Residency e abbiamo riunito nove artisti e artiste di varie discipline da Francia, Kenya, Lettonia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Spagna e Tanzania per una residenza di cinque settimane a Dar es Salaam. Io ero co-manager del progetto.
S.F. È stato complicato con la burocrazia europea?
S.J. Un po’ difficile, sì, soprattutto perché non ho una educazione.
S.F. Sei andato a scuola? Come hai fatto a imparare a leggere e a scrivere? E l’inglese?
S.J. Quando ho lasciato la mia casa avevo già un’idea di come scrivere in swahili, ho ricordi di essere andato a scuola. Partendo da questa base, e stando in strada, leggevo qua e là e insomma in qualche modo ho imparato. Così per l’inglese. Anzi, mi piace scrivere, preferisco scrivere che parlare.
S.F. Parlami del lavoro con la tua compagnia di danza.
S.J. Con Nantea abbiamo iniziato a fare spettacoli nel 2016, la prima performance è stata in Rwanda. Organizziamo una serata biennale di danza contemporanea, con spettacoli di danza tanzaniani e dell’Africa orientale. La compagnia gestisce anche “Nje Ndani”, un progetto di sensibilizzazione attraverso la danza strutturato per accrescere conoscenze e competenze di danzatori emergenti tanzani attraverso workshops, seminari, e dialoghi aperti sull’espressione artistica e l’impresa creativa. Ora l’abbiamo estesa invitando produttori da Uganda, Congo, Zimbabwe, e poi dalla Germania.
S.F. Hai detto che attraverso la danza vuoi narrare storie. Come lo fai?
S.J. La nostra danza non è solo espressione artistica, ma anche riflessione su questioni sociali, sull’esperienza umana e lo facciamo usando testo, musica, movimento, linguaggio verbale, costumi… Combiniamo tutte queste cose, e così narriamo la storia. Di solito collaboriamo con altre persone, con designer dei costumi e musicisti che registrano musiche apposta per gli spettacoli.
Normalmente dopo ogni performance dialogo con il pubblico, non con domande e risposte, ma in una sessione di riflessione, per far loro esprimere come hanno vissuto la performance, come si sono sentiti.
S.F. Avete avuto problemi con la censura?
S.J. Sì, perché in Tanzania non è permesso stare sul palcoscenico con il corpo praticamente nudo. Ci hanno detto che andavamo contro la cultura tanzaniana. Bisogna essere molto attenti.
S.F. Dovete praticare un’auto-censura.
S.J. Sì, è proprio così, ci auto censuriamo!
S.F. Quindi come artista devi affrontare molte sfide?
S.J. Sì, certo, la precarietà del mondo dell’arte, le limitazioni alla libertà di espressione, i sistemi discriminatori, il problema dei visti e l’instabilità finanziaria hanno avuto un impatto sul mio percorso. In Tanzania, ad esempio, impegnarsi in attività artistiche richiede la registrazione presso il National Arts Council (BASATA), che comporta quote iniziali e annuali, oltre ai costi per i viaggi internazionali correlati all’arte. Questo ostacolo burocratico aggiunge complessità al già difficile processo di espressione artistica in Tanzania. Quando noi artisti usciamo dalla Tanzania dobbiamo avere un permesso di viaggio che costa 15 euro. Può sembrare niente, ma so di molti che non hanno potuto viaggiare perché non avevano il denaro. E poi, perché questa tassa solo per gli artisti? E a volte ci sono stati gruppi che hanno perso il lavoro per questioni burocratiche.
S.F. E ovviamente la mancanza di libertà espressiva.
S.J. Sì, ma noi crediamo comunque di poter fare attivismo attraverso l’arte: denunciare, fare riflettere su problemi come le limitazioni nella società, o il razzismo. Ad esempio, il mio collega Tadhi ha avuto l’esperienza a Zanzibar di essere fermato al suo arrivo dalla polizia, perché era con la moglie tedesca, bianca. La nostra performance “YIN-YANG” parla anche di questo, è nata dalla sua esperienza personale di aver subito razzismo interno (cioè discriminazione tra persone che condividono la stessa cultura), di cui nessuno parla. A lui è successo tante volte a Zanzibar, un luogo rinomato per la sua bellezza ma dove lui non si è mai sentito a casa perché, ogni volta che ha visitato l’isola con amici bianchi, ha sempre assistito a privilegi razziali. È stato fermato tante volte dalla polizia e interrogato su perché “andava in giro con persone bianche senza permesso”, mentre la polizia non ha mai chiesto ai suoi amici bianchi perché andavano in giro con lui. Questa esperienza mostra che il doppio standard basato sulla razza è ancora profondamente radicato nelle strutture della società, anche tra persone che condividono lo stesso background. Questo fastidioso doppio standard ha fatto riflettere Tadhi sul suo senso di appartenenza e sulla libertà nel suo stesso paese e ha cominciato a discuterne, e sono uscite diverse testimonianze di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Queste conversazioni e questa esperienza sono state le basi per la creazione della performance “YIN-YANG”.
S.F. Un argomento di chi è favorevole alla censura è che serve a proteggere la cultura originaria del paese da influenze che vengono dall’esterno.
S.J. Io penso che anche prima che le persone facessero campagne per i diritti esistevano in Tanzania determinati orientamenti. Però bisogna seguire delle regole: il National Council ha prodotto un vademecum con una check list sulle cose da controllare prima di proporre un’opera. Io comunque voglio continuare a raccontare storie: sono consapevole di avere avuto una grande fortuna, mentre ci sono tante persone come me che non possono raccontare le loro storie.
Samwel Japhet ha vinto nel 2021 il Seed Award del Prince Claus Fund for Culture and Development in Olanda. Ha ottenuto una borsa di studio per essere formato, nel 2024-2026, nel Laboratory for Global Performance and Politics della Georgetown University, Washington D.C. Comincerà in settembre le lezioni online e in giugno 2025 sarà in Umbria per la prima sessione in presenza presso laMaMa Umbria International.
Mentre mi racconta di come ha vissuto da bambino, di come ha imparato l’inglese in strada, di come si è costruito una carriera artistica, mi colpisce la sua pacatezza, la concretezza e persino auto-ironia del suo discorso e, devo dirlo, un’impressione di totale equilibrio psicologico. Non dà l’idea di essere una persona che nasconde una sofferenza interiore, ma piuttosto di essere molto capace e attivo nel perseguire il suo lavoro culturale e nel tessere relazioni. Poche ore dopo il nostro incontro mi aveva già mandato una e-mail con il curriculum, un suo statement e alcune foto. Insomma, è sicuramente un giovane artista con risorse umane e caratteriali fuori dal comune, che ha saputo permettere alle relazioni, alle occasioni fortunate e all’arte di curare i suoi traumi.
Parole chiave : Danza, danza tanzaniana, Dar es Salaam, Nantea, Samwel Japhet, Tanzania, YIN-YANG
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/samwel-japhet-dallinfanzia-nelle-strade-della-tanzania-alla-danza/trackback/
Organizzare la 27a edizione dello Zanzibar International Film Festival è stata una sfida. Una delle più importanti manifestazioni culturali del continente africano, che si svolge nell’affascinante Stone Town, l’antica città dichiarata patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, non ha alla base un’organizzazione strutturata e finanziamenti stabili da parte delle istituzioni locali e internazionali, e il recente cambio nella direzione ha rischiato di metterla in crisi.
Nel 2023 il fondatore, direttore e punto di riferimento del festival, il regista zanzibarino Martin Mhando, ha insistito per lasciare l’incarico che aveva ricoperto per 25 anni, portando lo ZIFF a diventare un punto di riferimento per chi è interessato/a a seguire la produzione cinematografica, in particolare dell’Africa orientale. Per succedergli era stato nominato Amil Shivji, un giovane regista tanzaniano vincitore di una precedente edizione con il film Vuta N’Kuvute, incentrato sulla colonizzazione a Zanzibar. Dopo aver preso in mano l’attività di programmazione con grande energia, a dicembre 2023 Shivji ha declinato l’incarico, senza dare spiegazioni. I rumors ipotizzano (e non è difficile crederlo) un contrasto con il board del Festival, composto da anziane personalità di Zanzibar, la cui influenza continua ad avere molto ascolto. Sono stati quindi nominati in tutta fretta due operatori con una lunga esperienza nello staff del festival: Joseph Mwale, già promotore marketing da 15 anni, come CEO, e Hatibu Madudu come direttore artistico. Era febbraio, il tempo per organizzare era pochissimo e così il festival è stato spostato dall’usuale mese di giugno a inizio agosto, e ridotto a quattro giorni.
Grazie al più grande numero di candidature (3.000) mai ricevute, il festival ha presentato 25 film, 23 corti e 12 documentari da diversi paesi: Tanzania, Kenya, Zambia, Nigeria, Pakistan, India, Francia, Ghana, Senegal, Uganda, Egitto, Sud Sudan, Canada, Iran, Russia, USA, Cina, Sudan, Palestina, Brasile, Marocco, Stati Uniti, Tunisia.
Allo ZIFF la visione dei film è aperta al pubblico e gratuita, la sede principale delle proiezioni è l’Old Fort, costruito dagli Arabi nel XVIII secolo. Non sempre l’organizzazione è adeguata e, a parte il sito web fermo al 2023, ci si può ritrovare con un film in arabo senza i sottotitoli o una proiezione che si interrompe improvvisamente. Ma poi succede che il pubblico resta seduto e aspetta che lo staff faccia ripartire il film, mentre il produttore del film invece di arrabbiarsi si alza e dice: “Avete pazienza di aspettare? Vi racconto il pezzo che è saltato e riprendiamo, va bene per voi?” E la gente resta…
Così è successo con Mungai Kiroga, produttore del documentario Searching for Amani di Nicole Gormley e Debra Aroko, dove Simon Ali, un ragazzo keniano di 13 anni aspirante giornalista, indaga sull’uccisione, avvenuta nel 2019, di suo padre, guardia forestale nell’area protetta privata di Laikipia in Kenya. Sullo sfondo i contrasti tra gli allevatori nomadi, sempre più in cerca di terra per le loro mandrie decimate dalla siccità, e gli agricoltori, che vogliono proteggere le terre che coltivano stanzialmente. Lo sguardo di Simon, e del suo migliore amico appartenente a una famiglia di allevatori messa in grave crisi dalla siccità, offre una rappresentazione estremamente poetica oltre che critica su chi sono le vittime della crisi climatica, sulla conservazione della natura e sulla giustizia per le comunità. Kiroga ha spiegato che il progetto originario prevedeva di dare la telecamera a tre giovani di tre aree del mondo colpite dal cambiamento climatico, ma il Covid ha fatto sì che solo con Simon sia stato possibile. In più, i produttori hanno capito che il suo carattere sensibile e forte allo stesso tempo e il suo entusiasmo per la professione giornalistica sarebbero stati sufficienti a nutrire l’intero film, che infatti ha già vinto vari premi, tra cui il Best New Documentary Director al Tribeca film festival.
Venendo ai premi dello ZIFF 2024, annunciati la sera del 4 agosto, Nisha Khalema, regista esordiente ugandese, ha vinto il premio del Migliore Film dell’Africa Orientale con Makula (Certainly not a Mrs), storia drammatica di una ragazza che dopo il suo matrimonio “da sogno” si trova imprigionata in una drammatica situazione di violenza e sfruttamento, da cui deve fuggire. Khalema, che ha vinto anche il premio come Migliore Attrice dell’Africa Orientale, la sera della premiazione ha affascinato il pubblico con una mise scintillante e discorsi frizzanti e ironici sul fatto che essere premiata come giovane donna ha un valore in più.
Khalema era tra le partecipanti alla masterclass tenuta da Rama Thiaw, regista, produttrice e scrittrice mauritano-senegalese, autrice dei film documentari ambientati in Senegal Boul Fallé. La voie de la lutte (2009) e The Revolution won’t be Televised. Thiaw ha introdotto la sessione formativa – partecipata da una trentina di filmaker provenienti da paesi dell’Africa orientale e finanziata dalla Unione Europea Thiaw si è concentrata sugli aspetti legali della produzione dei film, a partire dal momento dell’ideazione: come registrare l’idea, come negoziare per proteggere la propria parte del diritto d’autore, importante soprattutto per chi agisce in paesi in cui la debolezza dell’industria cinematografica obbliga alla co-produzione con enti del Nord. Con i/le partecipanti ha analizzato un vero e proprio contratto di co-produzione, articolo per articolo, suscitando molto interesse.
Il film vincitore come Best Feature Film è stato Goodbye Giulia, di Mohamed Kordofani, film di apertura del programma. Ambientato in Sudan nel periodo precedente alla secessione del Sud Sudan con il referendum (2011), caratterizzato da violenze tra musulmani del nord e cristiani originari del sud, narra la storia del rapporto tra una ex cantante (del nord) e la giovane vedova di un uomo del sud di cui lei ha causato la morte. Per rimediare al senso di colpa la donna assume la ragazza come domestica, facendo vivere lei e il figlio nella sua casa. Sullo sfondo delle tensioni tra le due popolazioni e della propaganda politica che hanno preceduto il referendum, si evolve il rapporto tra le due donne, mettendo in discussione i punti di vista dell’una e dell’altra: la complessità dei due caratteri si rivela poco a poco e coinvolge grazie a una sceneggiatura perfetta.
La scelta di premiare questo film, annunciata per ultima, ha reso felici le poche persone che avevano resistito fino alla fine della cerimonia di premiazione, iniziata con un ritardo di un’ora e mezza per aspettare il Guest of Honor, l’ex presidente di Zanzibar, e sviluppatasi con discorsi “delle autorità” in swahili abbastanza noiosi (fortunatamente alternati a musica e premiazioni con gli artisti e le artiste protagoniste). Nella cerimonia di apertura il CEO Joseph Mwale aveva ammesso che “la crisi dello ZIFF serve come allarme per tutti noi. Di questo passo, rischiamo di perdere ciò che ci è caro”, e aveva esortato tutti a sentire il festival come proprio, a collaborare per assicurare che esso non solo sopravviva, ma prosperi, continuando a ispirare le generazioni future.
Perché questo avvenga, sarà necessario che, oltre alla messa in campo di un sistema organizzativo stabile, efficiente e attento agli impatti, si realizzi davvero il tema che era stato scelto per questa edizione: la “rejuvenation”. Un ringiovanimento che la componente anziana dell’organizzazione dovrà accettare.
Altri riconoscimenti sono andati a Our land, our freedom (Kenya, diretto da Zippy Kimundu e Meena Nanji) come Miglior Documentario, Oceanmania/Baharimania (Tanzania, diretto da Alphonce Haule e Gwamaka Mwabuka) come Migliore Cortometraggio, Otis Janam in Nick Kwach (Kenya) come Migliore Attore dell’Africa Orientale, Uhuru Wangu (Zanzibar, diretto da Mohammed Sule) Premio Fondazione Emerson, Unabankable (Canada, diretto da Luke Willms) come Migliore Documentario selezionato dal Board del festival. È stata premiata anche, come Migliore Serie TV dell’Est Africa, Arday Somalia di Shukri Abdukadir.
Segnaliamo anche il cortometraggio Mirah, di Ahmed Samir (Egitto), storia di una giovane biologa egiziana che in Germania fatica a farsi accettare. Su richiesta della censura, ben presente in Tanzania, per la proiezione ufficiale il regista ha dovuto tagliare alcune scene che potevano alludere a tematiche “sensibili”, ma in seguito è stato possibile ri-proiettarlo nella versione completa. Anche la proiezione del video WonDarLand, non nel programma ufficiale, non era scontata, essendo il frutto di workshop tenuti a Dar es Salaam dal danzatore francese Matthieu Nieto sul tema della sofferenza psicologica dovuta all’esclusione e dell’accettazione di sé da parte degli adolescenti.
“A festival it about a place, about audience, but it is also more about context”, ha scritto l’ex direttore Martin Mhando nell’introduzione al catalogo dell’edizione del 2022. Niente di più adatto allo Zanzibar International Film Festival.
Parole chiave : cinema africano, Mohamed Kordofani, Nisha Khalema, Stone Town, Zanzibar International Film Festival, ZIFF
Trackback url: https://www.africaemediterraneo.it/blog/index.php/zanzibar-international-film-festival-un-punto-dincontro-per-il-cinema-africano/trackback/
di Sandra Federici
In un quartiere periferico di Dar es Salaam ha sede il CDEA, organizzazione dedicata allo sviluppo di attività culturali in Tanzania. È uno spazio di co-working denominato Eco Sanaa Terrace, costituito da piccole strutture adibiti a uffici, sale riunioni e laboratori e una grande tettoia centrale in legno arredata con tavoli. Qui ci sono diversi ragazzi e ragazze, soli o in piccoli gruppi che stanno lavorando. La direttrice Ayeta Anne Wangusa ha organizzato in occasione della mia visita un incontro con lo staff direttivo: Ismael Mutanda, manager amministrativo, Angela Kilusungo, responsabile del settore creative economy, Sarah Balozi, responsabile dei progetti artistici, Magreth Bavumo, comunicatrice, e Johnny Mudolo responsabile della logistica. Prima di iniziare, mi propone di fare una foto con Aichi Masauri, appena nominata “Midundo Radio Face of the People” con un concorso su Instagram. Aichi è laureata in economia e statistica.
S.F.: Come nasce il Center for the Development of Eastern Africa?
Ayeta Wangusa: Siamo nati come think tank creativo e poi nel 2012 abbiamo istituito formalmente una ONG, per cercare di mobilitare la società civile nel dialogare e fare pressione sulla politica affinché la cultura sia posta al centro dello sviluppo umano. Nella nostra visione, la cultura può servire a risolvere molti problemi nella regione dell’Africa orientale, per questo facciamo ricerca e advocacy sulle politiche. Alla base di questo noi poniamo la documentazione della cultura tanzaniana, affinché ci sia un legame tra passato e il presente. Per noi è molto importante documentare il passato, per dare consapevolezza di quale è la nostra origine culturale, la nostra storia, e collegarlo al presente, alle nuove tecnologie e forme espressive che oggi abbiamo a disposizione.
S.F.: Quali sono le vostre attività principali?
Ayeta Wangusa: Abbiamo quattro principali settori di intervento:
Innanzitutto, il Culture and Governance Programme, sviluppato tramite diverse ricerche sull’economia creativa e la governance della cultura [i rapporti di diverse ricerche sono disponibili in accesso libero sul sito https://www.cdea.or.tz, ndr]. In secondo luogo c’è tutta l’attività volta a favorire l’espressione culturale da parte dei giovani: incontri, laboratori di scrittura, presentazioni. Importante il “film critic lab”: proiettiamo film e poi li analizziamo, ne discutiamo, perché manca spesso nei film tanzaniani una profondità dei temi presentati.
Abbiamo poi una Web radio [Midundo] per musicisti emergenti, dove cerchiamo di promuovere i/le “conscious artists”, coloro che esprimono contenuti di riflessione, di cambiamento. Abbiamo anche organizzato nel 2016 e nel 2017 l’East African Vibes Concert, invitando artisti di altri paesi.
Infine, dal 2022 abbiamo avviato la Creative Economy Incubator & Accelerator Initiative, una piattaforma per promuovere artisti, artigiani e imprenditori creativi, selezionati tramite bando, e offrire loro un processo di “accelerazione”, affinché implementino la loro idea di business grazie a una formazione tecnica. I settori sono design di moda e accessori, industria del cinema e della musica.
S.F.: Immagino non sia facile rendere sostenibili questo tipo di attività.
Angela Kilusungo: Io sono responsabile dell’incubatore, e in effetti il lavoro difficile è l’accesso al mercato di queste produzioni. Innanzitutto, i formatori sono degli imprenditori già affermati, ad esempio stilisti del settore moda. Prima però facciamo una valutazione dei bisogni, per dare concretezza alla formazione. Abbiamo una piattaforma formativa online, in modo che possano accedere più persone.
S.F.: Sono persone con una formazione nel campo della moda?
Angela Kilusungo: Sono quasi tutti autodidatti, solo all’Università di Dodoma c’è un corso di fashion design. Noi accettiamo volentieri persone che si sono auto-formate sul campo, e che nel nostro incubatore possono acquisire competenze tecniche e di gestione. L’accompagnamento verso il mercato lo facciamo tramite partecipazione a fiere, attività di marketing e networking. Organizziamo eventi in cui possano mostrare il loro lavoro, abbiamo una collaborazione con la Swahili Fashion Week, che si svolge ogni anno in dicembre. Poi abbiamo anche una boutique in cui possono vendere, aperta all’esportazione.
S.F.: Ho visto che avete pubblicato una ricerca sulle condizioni degli artisti in Tanzania, come avete affrontato questo tema?
Sarah Balozi: Abbiamo studiato le condizioni di lavoro ed espressione degli artisti, e il loro status, come funziona l’Art & Culture Fund della Tanzania e come può essere migliorato, perché è fondamentale il finanziamento pubblico della cultura. Il rapporto tratta i problemi relativi alla tassazione, ai contratti, alla formazione, alla parità di genere. Poi c’è il tema dei diritti. La nostra idea è creare una “Legal Rights Clinic” per gli artisti, dando innanzitutto consulenza sui contratti di ingaggio.
S.F.: Il tema della censura è abbastanza problematico in Tanzania.
Sarah Balozi: La censura c’è ed agisce sulla libertà degli artisti, che è legata alla libertà di espressione. C’è una Commissione che controlla e vieta la pubblicazione di prodotti che contengano questioni legate alla morale, in particolare è proibito ogni accenno all’omosessualità. E ovviamente sono un problema anche le critiche al governo. Anche su questo abbiamo pubblicato sul nostro sito una ricerca: Artistic freedom in Tanzania (2024), finanziata dall’ambasciata Norvegese in Tanzania.
S.F.: Fate un lavoro di promozione della cultura a tutto tondo.
Ayeta Wangusa: Noi crediamo che la cultura, se si fanno investimenti, sia una fonte di sviluppo economico, che possa offrire posti di lavoro in modo che le persone non debbano più emigrare, anzi, chi è uscito possa ritornare. Tante donne potrebbero vivere del loro lavoro, ad esempio nell’artigianato e nella sartoria per l’industria cinematografica. Cerchiamo di creare un ecosistema che favorisca il lavoro regolare. A mio parere il mercato per la creatività dell’Africa c’è, basti pensare alla fame di contenuti delle piattaforme come Netflix.
S.F.: Come gestite gli aspetti di comunicazione?
Magreth Bavumo: Io mi occupo di comunicare internamente ed esternamente. Facciamo eventi mensili, legati a progetti, ma anche eventi di networking, per fare incontrare gli artisti e le artiste. Io creo i contenuti per Instagram, TikTok e per Facebook, che però ha un pubblico più “adulto”. C’è anche la radio comunitaria Musoma, a Butiama, villaggio natale del primo presidente della Tanzania, Julius Nyerere. Abbiamo creato uno studio radiofonico e tra poco partiranno le trasmissioni in FM, anche se i fondi sono scarsi. Speriamo di creare un pubblico numeroso e che questo faciliti il reperimento di finanziamenti. Parleremo di salute, notizie, aspetti culturali che possono influire sulla vita delle persone.
S.F.: In che modo per voi la cultura agisce sulla vita concreta?
Ayeta Wangusa: La nostra è una visione olistica, ad esempio è importantissimo il tema ambientale, l’approccio circolare. I nostri principi di base sono Environment, Social, Governance: anche i mobili della Eco Sanaa Terrace sono in materiale riciclato. Crediamo molto nella prospettiva del turismo culturale. La Tanzania è conosciuta per la natura, i parchi, gli animali selvatici, ma c’è tanto valore culturale che può essere attrattivo per una forma alternativa e sostenibile di turismo: la nostra storia, le tradizioni, la musica.