26 settembre 2011
La morte di Wangari Maathai: una donna e i semi dell’utopia
Qualcuno dice di aver messo fuori la bandiera della pace, qualcun altro che pianterà degli alberi in suo onore, una donna dice di essere diventata più forte grazie al suo esempio, e tanti, quasi tutti, la chiamano “mama”. Infiniti sono i messaggi di cordoglio sulla pagina facebook di Wangari Maathai, e tanti gli “emoticons” o “faccine gialle” con gli occhi tristi o le lacrime postati sui forum di discussione come il kenyano wazua.co.ke.
Docente di veterinaria e ambientalista, Wangari Maathai, kenyana, è stata la prima donna africana ad avere ricevuto il Premio Nobel per la pace. Il 25 settembre, a 71 anni, è morta dopo una lunga battaglia contro il cancro
Nel 2004 aveva ricevuto il riconoscimento del Nobel per il suo contributo alle cause dello sviluppo sostenibile, della democrazia e della pace. Ma proprio questo impegno le è costato violenze, persecuzioni e persino il carcere.
Nel 1977 aveva fondato il Green Belt Movement, con la missione di mobilitare la coscienza delle comunità, usando il rimboschimento come argomento base, per ottenere l’autodeterminazione, la giustizia, il miglioramento delle condizioni di vita e della sicurezza, e per il rispetto dell’ambiente. Con il suo movimento, la “signora degli alberi” aveva piantato più di 45 milioni di alberi in Kenya, per incrementare le aree forestali e restaurare l’ecosistema originario.
Sulla propria home page il Green Belt Movement scrive: «La sua partenza prematura è una grandissima perdita per tutti noi che la conoscevano, come una madre, una parente, una compagna di lavoro, una collega, un modello e un’eroina per coloro che hanno ammirato la sua determinazione a rendere il mondo un ambiente più tranquillo, più sano e un posto migliore ».
Maathai ha donato al mondo ottimismo, onestà, concretezza e intelligenza, lavorando a livello locale, nella sua terra, e nel panorama internazionale, senza paura che il suo messaggio fosse considerato utopistico.
Anzi, adesso che ci penso, la citazione più giusta per ricordarla è proprio un brano di una poesia di un’altra grande attivista per la pace, l’ambiente, i diritti delle donne: Joyce Lussu. È “L’utopia”, un lungo testo in cui le speranze sono semi, alberi, foglie… che dobbiamo fare crescere in maniera quasi infestante. Penso proprio che questa poetica esortazione a una concretezza “vegetale” sarebbe piaciuta a WangariMaathai.
L’utopia non è un’illusione
un sogno
una fantasia
lanciata nell’impossibile.
L’utopia è un progetto
l’invenzione di un possibile
all’interno di una realtà
quotidiana
non ancora realizzato
ma che forse si realizzerà.
Il seme dell’utopia
non fa nascere un albero solo
altissimo e robusto
come la sequoia o l’ontano
che dominano il paesaggio
e si vedono da lontano
Il seme dell’utopia
è tanti semi
sparsi qua e là
non si sa bene dove
qualcuno crescerà
qualche altro si seccherà
aggredito dalla bufera o dalla siccità.
Noi tutti così diversi,
noi tutti così uguali, possiamo forse aiutare a crescere
arbusti cespugli e boccioli
sparsi qua e là,
un giorno o l’altro ci daranno
fiori e frutti
per tutti
di mille forme e di mille colori.
Li raccoglieremo con grandi feste
in mazzi e ceste,
li appenderemo nei recinti
di etnie e di nazionalismi
artificiali
al posto delle armi micidiali
così care ai militari,
al posto di fasci di tratte e di cambiali,
così care agli usurai,
al posto di veleni globalizzati
che ci vendono ai supermercati
sostituendo alle chiusure
cancelli senza serrature.
(…)
Ho aperto la finestra
e ho visto seduto sul marciapiede
un bimbo marocchino
figlio di un mio vicino
che si esercitava in italiano
ripetendo ad alta voce
sul ritmo dei versetti del Corano
un vecchio adagio toscano
finale delle favole
stretta la foglia
larga la via
dite la vostra
che ho detto la mia.
bello l’accostamento di queste due donne! e sempre più utile rileggere la poesia di Joyce. Lei diceva che l’utopia è qualcosa che ancora non si realizza ma che si potrà raggiungere…