Lavoro, integrazione, normalità

Sandra Federici

Editoriale del numero 88 (1/2018) di Africa e Mediterraneo, “L’integrazione lavorativa di migranti e richiedenti asilo”

Fasi della lavorazione di prodotti di pelletteria presso la coop. sociale Cartiera. © Francesco Guidicini

L’approccio securitario all’immigrazione sta trionfando – in Italia ma non solo – con l’appoggio di un grande consenso elettorale e delle opinioni pubbliche. Quell’insieme complesso di fenomeni che sono le migrazioni, da tempo osservati, interpretati e gestiti grazie all’apporto di strumenti sociologici, storici, demografici, economici e non solo, è affrontato e comunicato attraverso l’accostamento diretto ai concetti di sicurezza ed emergenza. Una scorciatoia presentata con una retorica che si vuole ispirata al buon senso e alla concretezza dell’uomo comune, con molto successo.

E così, difficilmente trova spazio nell’opinione pubblica e nell’informazione mainstream la constatazione che l’immigrazione dai Paesi meno sviluppati o in situazioni di conflitto costituisce per l’Europa una questione strutturale di grande importanza.

L’attrazione che la prosperità economica e la stabilità politica dell’UE hanno sempre esercitato non pare destinata a diminuire: il flusso di persone in ingresso non cesserà, rendendo sempre più necessaria, a livello comunitario, la definizione di percorsi di integrazione condivisi al fine di identificare strategie e misure per un assorbimento dei flussi da parte dei Paesi ospitanti che sia sostenibile e proficuo per tutti gli attori in gioco. Vi è un consenso ampiamente condiviso tra gli esperti sul fatto che la partecipazione al mercato del lavoro è il passo più importante per un’integrazione riuscita nelle società ospitanti, visto che presumibilmente un numero elevato di richiedenti asilo e rifugiati rimarranno nell’UE per diversi anni.[1]  Ciò richiede investimenti elevati nel capitale umano, specialmente nei Paesi in cui l’afflusso di migranti può essere considerato un’opportunità per affrontare l’invecchiamento della popolazione. Si stima infatti che, in molte zone dell’UE, da qui al 2050 il 30% della popolazione avrà più di 65 anni (Proiezione Eurostat 2004/2050) e che, per ogni 100 persone in età lavorativa, nel 2050 ci saranno 53 persone di 65 anni o più, rispetto a un rapporto di 29 persone anziane per 100 adulti in età lavorativa nel 2015. Questo porterà inevitabilmente a cambiamenti di tipo economico e sociale, prodotti dalla diminuzione della popolazione attiva e dalla difficoltà di reclutamento nei settori che non possono essere delocalizzati, con un inevitabile declino di loro tassi di crescita.

Il fatto che i migranti internazionali comprendono una percentuale maggiore di persone in età lavorativa rispetto alla popolazione complessiva europea ha spinto certi Paesi – come la Francia – a discutere di “immigrazione di sostituzione” già più di una decina di anni fa. In un rapporto pubblicato nel 2006 dal Centre d’analyse stratégique del governo intitolato Bisogno di mano d’opera e politica migratoria,[2] si parla infatti di come trasformare l’immigrazione in una risorsa “di sostituzione” per colmare i vuoti lasciati dal calo demografico e attenuare il più possibile gli effetti negativi dell’invecchiamento sull’economia del Paese.[3]

La lettura dei fenomeni migratori in Europa come processo compensatorio delle tendenze demografiche e del mercato del lavoro costituisce la matrice dei contributi di questo dossier, che accoglie molti articoli di docenti della Summer School on Migration and Asylum 2018 di coop. Lai-momo e Africa e Mediterraneo. A cominciare da Alessio Brown, che nel primo articolo spiega che, anche se la libera circolazione del lavoro all’interno della UE ha efficacemente contrastato gli squilibri e migliorato l’accesso a posizioni lavorative di personale qualificato, ciò non è sufficiente nell’ottica di una prospettiva di crescita a lungo termine e per soddisfare una domanda interna che richiede sempre maggiore dinamismo e flessibilità. Di conseguenza, i mercati europei dovranno fare affidamento anche sulla forza lavoro proveniente da Paesi terzi.

Per attuare questi processi in modo proficuo per tutte le parti in causa, chiarisce Bernd Parusel, l’Europa dovrebbe, invece che concentrarsi solo su strumenti di restrizione, leggi limitanti e maggiori controlli, attuare un cambiamento di prospettiva, applicando un approccio olistico che tenga conto dei molteplici tipi di migrazione internazionale, compreso il rientro al Paese di origine, e sviluppando il concetto relativamente nuovo della “migrazione circolare”, che può essere definito come una “ripetizione di migrazione legale da parte della stessa persona tra due o più Paesi”.

Dopo alcuni anni monopolizzati dalle urgenze degli arrivi e della gestione dell’accoglienza, il tema dell’integrazione lavorativa dei migranti e richiedenti asilo in Europa prende sempre più piede. Le priorità degli Stati membri si sono spostate verso azioni a più lungo termine, finalizzate all’integrazione sociale ed economica dei migranti nel tessuto produttivo europeo. Chiara Monti discute le iniziative più promettenti, a partire dal piano d’azione sull’integrazione dei cittadini di Paesi terzi che,[4]  istituito dalla Commissione europea nel 2016, ha stabilito i principi di base per rispondere a queste sfide, in particolare i potenti strumenti dell’istruzione e della formazione.

Tuttavia, lamenta Ojeaku Nwabuzo, nella maggior parte degli Stati membri rimangono molte differenze nelle condizioni lavorative rispetto ai cittadini autoctoni, e in particolare le donne migranti hanno un’esperienza specifica di forme strutturali di discriminazione.

Un tema fondamentale nell’accesso al mercato è quello della certificazione delle competenze, dibattito aperto e ancora poco strutturato, nonostante la Convenzione di Lisbona, all’art. VII, sancisca come obbligatorio per gli Stati membri elaborare procedure atte a valutare equamente i requisiti dei rifugiati e dei beneficiari di protezione sussidiaria anche in assenza della relativa documentazione, se all’interessato è impossibile reperirla.

Come riportato da diversi articoli di questo dossier, nella quasi totalità dei Paesi i cittadini di Paesi terzi vengono impiegati senza un riconoscimento del proprio titolo di studio o delle competenze professionali e lavorano con prospettive di carriera inferiori rispetto agli autoctoni. Alessia Lefébure tratta in particolare il tema dell’accesso all’educazione universitaria da parte dei richiedenti asilo, partendo dalla preoccupata constatazione di un panorama europeo dell’istruzione superiore frammentato e poco leggibile per quanto riguarda i criteri e le modalità di accesso, le normative e le prassi nazionali. In risposta a questa situazione, alcuni programmi tentano di rimuovere le barriere, come ad esempio la «Refugees Welcome Map», una mappa interattiva creata dall’Associazione delle università europee (EUA) con lo scopo di identificare, documentare e aggiornare tutte le iniziative ed opportunità formative.

L’accesso all’istruzione superiore passa necessariamente dal riconoscimento dei titoli di studio, in merito al quale, come mostra Giorgia Gruppioni, se in Germania e Olanda sono consolidati i sistemi per favorire l’informazione, la diffusione e la valutazione delle procedure di riconoscimento dei titoli esteri, in Italia il percorso è particolarmente difficile, costoso e disorganico.

L’industria culturale e creativa può rappresentare un settore adatto a coniugare l’inserimento lavorativo dei migranti e le politiche volte al dialogo interculturale. Uno studio comparativo condotto da Eloïse Chopin, Antoine Inglebert-Frydman, Lionel Pourtau in Francia, Italia e Germania con l’obiettivo di identificare e confrontare programmi atti a favorire l’accesso dei migranti al settore musicale ha identificato alcuni dispositivi volti a questo tipo di inserimento professionale: identificazione, diffusione, finanziamento, formazione, tutoraggio e messa in rete. Lo studio mostra che in generale, se esistono nei tre Paesi alcune esperienze di partecipazione e inclusione dei migranti nella produzione culturale, manca uno schema di integrazione strutturato su larga scala e le prospettive di occupabilità in questi settori sembrano ampiamente sottostimate.

Una ricerca-azione svolta da Sofia Vilarinho su un gruppo di sarti africani immigrati a Lisbona propone di affrontare la questione del rafforzamento delle competenze tecniche e delle abilità specifiche dei migranti con un approccio metodologico che unisca le caratteristiche del lavoro e dell’addestramento informale, tipico delle realtà africane, con la necessità di certificare le competenze secondo un metodo riconosciuto dal modello occidentale.

Gli Stati possono mettere in campo solide strategie nazionali per l’inserimento lavorativo di migranti e richiedenti asilo. In Svezia, spiega Caroline Tovatt, a partire dal 2010, per facilitare l’inserimento degli immigrati nell’area professionale del mercato del lavoro svedese corrispondente alle loro competenze, il Servizio pubblico nazionale per l’Impiego ha iniziato ad attuare una serie di iniziative personalizzate per mettere in contatto la domanda con l’offerta, ma anche iniziative mirate a soddisfare le esigenze di specifiche categorie di immigrati appena arrivati (corsi di lingua svedese, di orientamento sociale, dispositivi di valutazione/validazione delle competenze).

In Italia, invece, come mostrano Pierre Georges Van Wolleghem e Annavittoria Sarli, questa strategia non è stata ancora approntata, e le regioni italiane sono caratterizzate da ampie disparità di tipo economico, sociale e politico, che incidono pesantemente sui livelli di occupazione non solo dei migranti, ma anche dei cittadini italiani. Una caratteristica del modello italiano è quella che viene definita come “economia dell’alterità”, secondo la quale i lavoratori stranieri sono impiegati proprio perché sono “altri” rispetto ai lavoratori italiani e la loro forza lavoro non è finalizzata a competere con questi, ma piuttosto a svolgere quei lavori che gli Italiani non vogliono più fare, in posizioni subalterne e al di sotto del loro livello di istruzione. Grande forza dell’Italia è l’attivismo della società civile che, in collaborazione con istituzioni locali e centri di accoglienza, svolge un ruolo chiave nel collegare il sistema di accoglienza e il mercato del lavoro attraverso iniziative che combinano azioni di sostegno all’imprenditorialità dei migranti, incontro tra domanda e offerta, formazione linguistica, formazione professionale, tirocini e tutoraggio sul posto di lavoro.

È necessario, ripetiamo, considerare l’integrazione dei migranti come un investimento nel futuro, che si ripaga nel lungo periodo, con un approccio lungimirante, basato su un dibattito che tenga conto anche degli effetti positivi che l’immigrazione può apportare nel mercato del lavoro e volto a contrastare esplicitamente alcuni pregiudizi comuni esistenti. È stato dimostrato anche che un accesso rapido e senza restrizioni dei rifugiati nel mercato del lavoro e l’attivazione di misure di integrazione attiva, rafforzate nei primi mesi della loro permanenza in un Paese europeo, sono fondamentali per favorire le prospettive di integrazione a lungo termine, un’integrazione che conviene anche alle società di accoglienza.

Questa visione non cede alla paura, guarda lontano tenendo i piedi per terra, nutrendosi di realismo e apertura. La troviamo rappresentata nel ritratto in copertina, scattato da Francesco Guidicini, chief portrait photographer del settimanale inglese Sunday Times, che ha realizzato un servizio nella coop. sociale Cartiera, start-up dell’artigianato in pelle e tessuto made in Italy. Abituato a fotografare i VIP della politica inglese e dello spettacolo internazionale, ha passato alcuni giorni a ritrarre altre persone molto importanti nel nostro tempo: i richiedenti asilo e i titolari di protezione che vi lavorano e che cercano di ricucire le loro vite attraverso un mestiere. In questo scatto, il tirocinante Ben M. B. mostra una delle lavorazioni che esegue ogni giorno con la competenza e la precisione necessarie a una produzione artigianale della moda italiana. Il suo sguardo – diretto, concreto, normale – ci interpella e sembra volerci ricordare che, al di là di tutte le paure, anche comprensibili, gli occhi è meglio rivolgerli al futuro.

1 – Cf. il rapporto curato dal Parlamento Europeo, European Parliament, Directorate general for Internal policies, study for the EMPL Committee 2016: Labour market integration of refugees: strategies and good practices. The Common Basic Principles for Immigrant Integration Policy, Annex 1.

2 – Centre d’Analyse stratégique, Rapport Besoins de main-d’œuvre et politique migratoire, Mai 2006.

3 – Da notare che il tasso di natalità francese si colloca tra i più alti in Europa. Infatti, i tassi di natalità netti più alti del 2016 sono stati registrati in Irlanda (13,5 per 1.000 residenti), Svezia e Regno Unito (11,8‰) e Francia (11,7‰). Al contrario i più bassi sono stati registrati negli Stati membri del Sud: Italia (7,8‰), Portogallo (8,4‰), Grecia (8,6‰), Spagna (8,7‰), Croazia (9,0‰) e Bulgaria (9,1‰). Nella UE, nello stesso anno il numero di nascite e di morti è stato equivalente e l’aumento di 1,5 milioni di abitanti è dovuto tutto alla migrazione (Eurostat 2016).

4 – European Commission, Communication from the Commission to the European Parliament, the Council, the European Economic and Social Committee and the Committee of the Regions: Action Plan on the Integration of Third Country Nationals, 7th June 2016.