Rifugiati: l’Emergenza Nord Africa in Italia
Editoriale di Sandra Federici del numero 77 di Africa e Mediterraneo, "Rifugiati: l’Emergenza Nord Africa in Italia"
Dall’inizio del 2011 e nel 2012 l’Italia ha interpretato, forse suo malgrado, un ruolo importante nell’evento storicamente cruciale della Primavera araba, che ha modificato radicalmente il panorama politico del Mediterraneo. Come conseguenza delle rivoluzioni nei Paesi del Nord Africa, un flusso eccezionale di persone è arrivato sulle coste del nostro Paese, che il 12 febbraio 2011 ha dichiarato lo stato di emergenza umanitaria. Il Governo ha deciso di riconoscere un visto di protezione umanitaria (ex art. 20 legge 6 marzo 1998) a tutti i cittadini, circa 10.000, arrivati in Italia tra il primo gennaio e il 5 aprile 2011. Dal 6 aprile 2011, il Governo ha incaricato la Protezione civile della gestione dell’accoglienza dei richiedenti asilo e migranti provenienti dal Nord Africa attraverso il decreto “Emergenza umanitaria cittadini provenienti dal Nord Africa OPCM 13 aprile 2011”, anche conosciuto come “Piano Emergenza Nord Africa” (PENA).
Circa 25.000 persone (dati Protezione civile) sono state proporzionalmente suddivise nelle diverse regioni italiane. Il piano ha coinvolto i dipartimenti governativi, le regioni, gli enti e le strutture operative a livello locale. Il piano di accoglienza terminerà a fine 2012. La maggioranza delle persone che sono state accolte nel PENA hanno fatto domanda di protezione internazionale, quasi sempre senza un servizio di orientamento legale, tanto che secondo la Commissione nazionale per il Diritto d’asilo si sono registrate 37.350 domande di protezione internazionale nel 2011 (nel 2010 erano state 12.121).
L’Italia ha affrontato negli ultimi decenni altre emergenze umanitarie che l’hanno portata ad accogliere massicci flussi di rifugiati (ex-Jugoslavia, Albania, Kossovo), ma questa volta si è trattato di persone provenienti non da un solo Paese, parlanti una sola lingua, e con un unico background culturale. Sono arrivati cittadini di tante aree geografiche con enormi differenze linguistiche, culturali, sociali e, soprattutto, con diverse storie di migrazione – prevalentemente economiche – precedenti all’esodo forzato dalla Libia. Come si è svolta l’accoglienza di questo improvviso, massiccio e variegato flusso di persone? Quali meccanismi amministrativi sono stati messi in atto per fronteggiare l’emergenza? Come sono state divise le competenze? Come hanno vissuto e stanno vivendo i richiedenti asilo questa permanenza in Italia, che nella maggior parte dei casi non hanno voluto né progettato? Come funziona il sistema di protezione internazionale in Italia?
Queste sono alcune delle domande a cui gli autori di questo dossier – rappresentanti di istituzioni, ricercatori e, soprattutto, operatori sul campo – sono stati chiamati a rispondere.
L’articolo di Nadan Petrovic sottolinea che l’Italia è terra d’asilo sin dai tempi della legge Martelli, con la quale si è abolita la cosiddetta riserva geografica, e che il Paese ha costituito nel tempo un circuito di accoglienza attraverso CDA, CARA, SPRAR, ecc. Una rete che si è man mano consolidata grazie a progetti territoriali e programmi nazionali ma che durante l’ENA ha mostrato diverse contraddizioni ancora irrisolte. Ma il Piano ENA ha fornito anche l’occasione di ripensare diversi aspetti legati ad accoglienza, integrazione e governance degli interventi. Il PENA ha aperto il campo a nuovi attori, ha introdotto esperienze interessanti in relazione al burden sharing regionale, e a volte provinciale, e al ruolo delle regioni nella loro funzione di coordinamento, armonizzazione e talvolta monitoraggio degli interventi: una strada, si augura Petrovic, su cui proseguire.
La Primavera araba, sostengono Alessandro Fiorini e Maite Aznarez Araiz, è stato un banco di prova per il Sistema europeo comune di asilo, introdotto già nel Consiglio di Tampere del 1999, e che l’Unione europea sta, non senza fatica, cercando di raggiungere dotandosi di una normativa comune in materia, per ovviare alle grandi differenze fra i sistemi di asilo nei diversi Stati membri. Per fare questo, sottolineano gli autori, l’Europa deve sollecitare la solidarietà fra gli Stati membri, e la responsabilità di ciascuno Stato, che resta comunque sempre vincolato al rispetto dei propri obblighi internazionali, a partire dai diritti umani e dai diritti dei richiedenti asilo.
Lo stesso direttore generale della DG Affari interni della Commissione europea, Stefano Manservisi, ammette che non sono tempi facili per l’Europa, un continente che ha vissuto la crisi degli ultimi due anni trovandosi “ostaggio” della tensione tra sistemi nazionali, legittimati democraticamente, e l’esigenza di risposta sopranazionale, affidata a istituzioni che ancora oggi sono percepite come “tecnocratiche”. La Commissione europea ha fatto una serie di proposte, ora all’esame del Consiglio, che vanno nella direzione di costruire un sistema di governo europeo dell’area Schengen che consenta di intervenire e sopperire alle mancanze degli Stati in caso di crisi, per superare «l’illusione della sovranità nazionale tradizionale come soluzione a problemi ormai sovranazionali». Abbiamo intervistato il Capo dipartimento della Protezione civile Franco Gabrielli, a cui il Governo ha affidato la gestione dell’emergenza, facendogli presente le critiche da più parti sollevate e chiedendogli un bilancio. Gabrielli, oltre a fornire dati aggiornati e un quadro derivante dall’attività di monitoraggio svolta presso i Soggetti attuatori delle regioni e presso le stesse strutture di accoglienza, ammette l’esistenza di “ombre”accanto alle “luci”. Le difficoltà sono da lui attribuite alla varietà degli enti coinvolti, al fatto che vaste aree hanno vissuto «l’arrivo dei migranti più come un problema di assistenza che come un’opportunità di integrazione», alla lunghezza delle procedure di valutazione delle domande di asilo.
Alla voce fortemente critica di Gabriele Del Grande, rafforzata da un lavoro di anni di informazione sulle morti causate dal dramma dell’immigrazione irregolare, e ricca di conoscenze dirette con i protagonisti delle rivoluzioni arabe, abbiamo chiesto di trattare il tema dal punto di vista dei luoghi di “partenza” dei flussi. Del Grande riporta le testimonianze di chi è stato costretto a partire dalla Libia, persone inserite nel fiorente mercato del lavoro della dittatura libica che, a causa della guerra, sono dovute partire, iniziando una migrazione che non era progettata né voluta e che si sono ritrovate in un meccanismo molto costoso per il Paese di accoglienza, ma assurdo e privo di futuro.
In mezzo a queste persone c’erano anche diversi minori non accompagnati (4.155 secondo i dati del Comitato per i minori stranieri del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, ora abolito con la spending review), che il Governo ha dovuto gestire, racconta Sonia Trapani nel suo articolo, «cercando di individuare interventi che potessero nel tempo diventare soluzioni durature». Uno di questi interventi è un sistema informativo in grado di monitorare la presenza del minore dal suo arrivo in Italia e tracciare i suoi spostamenti; un altro riguarda l’istituzione di un Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati, finora sostenuta per lo più dai servizi sociali dei comuni.
Un fatto che ha caratterizzato la vita di tutti gli accolti nelle diverse strutture in Italia è stata la procedura della richiesta di asilo, con l’audizione presso la Commissione territoriale e l’esame delle richieste da parte delle stesse Commissioni. Le strutture di accoglienza o altri enti specializzati come l’associazione Avvocato di Strada, la cui esperienza con l’ENA è analizzata da Serena Paterlini, si sono occupati di aiutare i richiedenti asilo a scrivere una memoria, in preparazione all’audizione, che contenesse giustificazioni credibili per l’impossibilità a tornare nel Paese di origine. Il problema risulta proprio questo: è impossibile «basare il racconto dei profughi sulle forme di lesione dei diritti umani subite in Libia», perché «la concessione della forma di protezione internazionale è legata solo alle violazioni subite nel Paese di origine», abbandonato anche 20 anni prima.
Andrea Stuppini si è occupato di tracciare un utile quadro dei costi dell’Emergenza Nord Africa, comparandoli con i costi dell’ospitalità dei rifugiati nel circuito dello SPRAR, che riceve risorse annuali inferiori. Marina Frabboni ha sintetizzato le linee guida legislative in merito alla gestione delle richieste d’asilo, riportando i quattro tipi di decisioni che la Commissione territoriale può prendere in merito (concessione di protezione internazionale, protezione sussidiaria, protezione umanitaria, diniego di ognuno di questi status) e fornito un quadro di riferimento dei provvedimenti emessi specificamente riguardo all’ENA. Quella di utilizzare il canale della protezione internazionale per l’ENA è una scelta legislativa e politica che ha provocato «violazioni e contraddizioni», come spiega Daniela Peruzzo attraverso la storia individuale di L., un ragazzo nigeriano di 28 anni che, fuggito da Jos nel 2009, ha vissuto tutto l’iter dell’ENA fino a ricevere un diniego, al quale ha presentato ricorso.
Alcuni contributi sono scritti da autori che hanno avuto in questo anno e mezzo esperienze di lavoro diretto con i richiedenti asilo o di supervisione-coordinamento degli operatori. Questi articoli ci offrono il punto di vista delle persone, etichettate con la parola “profughi” o “ospiti” o “richiedenti asilo” e che rappresentano in realtà singole e specifiche situazioni, ognuna delle quali rimanda a un passato lavorativo, formativo, psicologico, a problemi presenti e concreti, incubi del passato, speranze, aspettative e motivazioni nel processo di integrazione in Italia.
Alessandro Fabbri, partendo da un lavoro sul campo in provincia di Bologna, descrive la perdita di resilienza, quel «processo in cui il continuo affluire di risorse esterne in uno scambio del tutto asimmetrico provoca (…) la perdita di autonomia da parte del “ricevente”», una persona che in passato è stata forte, coraggiosa, produttiva, capace di attivare risorse per risolvere situazioni difficili e che «progressivamente viene spogliata della propria capacità di autodeterminazione.» L’attenzione agli aspetti psicologici del terapeuta Paolo Ballarin mette in luce con delicatezza il fatto che innanzitutto l’esperienza di migrazione di queste persone è «da accostare nel suo insieme a una esperienza traumatica che colpisce l’integrità personale ad ogni livello.» La frattura tra un passato che diventa isolato, e un futuro che non è pensato, a causa della mancanza di progettualità, provoca per queste persone «una sorta di iperespansione del presente, aggravata dalla condizione di isolamento in cui per la maggior parte vivono», facendo spesso emergere situazioni di conflitto tra rifugiati e con gli operatori.

Quando i rifugiati arrivano al centro di accoglienza ricevono una tessera telefonica, Lampedusa 2008. © European Union, 2012
Giovanna Tizzi e Rachele Nucci, attive in provincia di Arezzo, hanno sentito esprimere dai richiedenti asilo soprattutto tre esigenze fondamentali «per il recupero del proprio equilibrio, per la propria autonomia, per le relazioni con gli altri, per le speranze in un futuro migliore»: lavoro, documenti e casa, possibilmente ad Arezzo, una città di piccole dimensioni in cui sono stati accolti, che hanno imparato a conoscere e che vivono come un guscio di sicurezza maggiore.
Emanuela Dal Zotto e Chiara Pirola, nell’introdurre la loro analisi dei problemi emersi nel corso dell’accoglienza in Provincia di Bergamo, propongono un interessante utilizzo del concetto del filosofo Agamben di “stato di eccezione” per cui l’emergenza «può porsi al di sopra delle vigenti regole d’accoglienza dei richiedenti asilo, creando un sistema parallelo allo SPRAR», in cui «le persone approdate a Lampedusa diventano quindi dei corpi da sfamare, da vestire e da collocare in strutture d’accoglienza più o meno idonee. Ciò che scompare all’interno di questo processo è il migrante stesso, la sua storia, il suo percorso migratorio, le sue aspirazioni, in poche parole la sua soggettività.»
Roberta Bonaccorso, descrivendo un’esperienza in provincia di Catania, sottolinea che gli enti locali, sulla base dell’accordo Stato-regioni-enti locali, si sono resi disponibili ad accogliere sul loro territorio una parte dei profughi. «Impreparati a questo tipo di accoglienza, gli enti locali hanno attivato processi di collaborazione e partecipazione attiva al fine di tutelare i diritti dei richiedenti asilo e facilitare la loro interazione», aiutati dagli enti gestori che hanno fatto da trait-d’union.
L’ultima parte del dossier è scritta da operatori della coop. Lai-momo, che ha vissuto l’esperienza dell’accoglienza di una sessantina di profughi nei territori della provincia bolognese. Dopo un’introduzione della coordinatrice Silvia Festi, i vari aspetti e tappe dell’accoglienza sono trattati dagli operatori impegnati nel lavoro sul campo, riportando le difficoltà, le complessità, le soluzioni e le metodologie elaborate. Troviamo raccontati l’arrivo, le prime cure mediche, l’accesso ai servizi sociali e sanitari, l’alfabetizzazione, i tirocini lavorativi, i percorsi di uscita. È raccontato il disagio che ha accomunato operatori e persone accolte e che è stato alimentato soprattutto dall’incertezza sul futuro, dal fatto che, ancora oggi, diverse persone restano in attesa dell’esito della domanda di protezione, o del ricorso o riesame avviati dopo aver ricevuto il diniego.
Si sente leggendo questi interventi che si tratta di un’équipe coesa che ha lavorato senza risparmio e con l’accompagnamento costante di un’attività di supervisione (anche psicologica), e di preziosi momenti di coordinamento, che hanno consentito di elaborare una visione comune e superare le difficoltà e lo smarrimento di fronte ai comportamenti a volte incomprensibili, imprevedibili o anche ostili degli ospiti. Con uno sguardo costante al patrimonio di relazioni positive, motivazioni e speranze che man mano si è costruito e che, forse, non andrà del tutto disperso.