Africa: il culto dell’eleganza

Estratto dell'articolo di Giovanna Parodi da Passano pubblicato in Africa e Mediterraneo n. 69-70, "African fashion: abitare il corpo e vivere la moda"

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Particolare dalla Clive Rundle Summer 2009 at The Turbine Hall, Johannesburg. Foto di Ivan Naude

Perché non vedere l’ambizione all’eleganza
come espressione della volontà di sopravvivere?
(Awa Meité, stilista maliana)

«La bellezza è sempre un incontro e, come tutti sanno, un incontro è una vicenda di storie che si congiungono». La bellezza un incontro. Con tutte le risonanze che l’accostamento fra le due parole può produrre. Nella sua felice definizione della bellezza, la frase di Maxime Rovere (2009, p. 3) ci sollecita a interrogare il senso del bello inserendolo nel quadro mutevole delle vite, delle appartenenze, delle memorie. Il riferimento alle “storie che si congiungono”, in particolare, evoca sullo sfondo delle preferenze estetiche un paesaggio culturale di mescolanze, scambi, contagi.

Cogliere l’essenzialità dell’incontro nell’esperienza della bellezza non è un’esigenza superflua, soprattutto oggi. Basti pensare al volto misto, relazionale, inventivo, fatto di connessioni e dissoluzioni culturali, di tante forme della bellezza e della creatività della nostra tarda modernità. E delle molte altre e discrepanti postmodernità non occidentali, a cominciare da quelle africane.

La frase di Maxime Rovere ci presta quindi anche un’immagine suggestiva per introdurre questo dossier dedicato alle mode e ai modi del vestire e dell’apparire nelle culture e nelle realtà africane.

Le pagine che seguono non hanno, come è fin troppo ovvio precisare, la pretesa di sintetizzare il dibattito sulla cultura della moda in Africa. E neppure aspirano a offrire uno sguardo d’insieme di un campo d’indagine così ampio e ricco di sfaccettature.1

Quello che il dossier si propone è soltanto uno stimolante accostamento di sguardi diversi ma in ogni caso illuminanti – o per la competenza di chi scrive o per la consapevolezza di chi è dentro al mondo che analizza – su moda e creatività culturale in Africa, vale a dire sugli inventivi scenari africani dell’abitare il corpo e del vivere la moda.

Dando per scontato infatti – data la varietà delle voci chiamate a intervenire nel dossier, e data la molteplicità delle forme e delle pratiche vestimentarie e la pluralità dei circuiti africani della moda – di dover per forza procedere in termini un po’ rapsodici, abbiamo pensato che gli articoli avrebbero comunque trovato il loro filo comune nella nozione di “creatività culturale” – concetto prediletto dall’antropologia contemporanea per il suo accento sulle capacità attive delle culture.

Abbiamo pertanto semplicemente invitato gli autori dei contributi a cimentarsi, dalle loro differenti postazioni, con la questione della moda in Africa nel senso più ampio. Non nascondiamo tuttavia la nostra ambizione di ricavare da questo mero incontro di sguardi qualche nuova prospettiva non tanto sulla moda, quanto sulla percezione, costruzione ed esibizione della bellezza in mondi, come quelli africani, che praticano con trasporto il culto dell’eleganza nella recita del quotidiano.

Mi sembra che gli scritti qui riuniti abbiano raggiunto con ampio margine l’obiettivo.

Benché lontani dall’essere esaustivi, riescono tuttavia a far emergere, anche attraverso scorci inediti, l’entità delle poste in gioco nel rapporto tra immagine e corpo, tra immagine e bisogno di identità, tra immagine e simbolo da cui nasce la moda.

Confermando da un lato, nel loro insieme, la centralità, la vitalità e la spettacolarità del linguaggio delle apparenze, dell’abbigliamento e dei tessuti nelle società africane di ieri e di oggi. E avvalorando dall’altro – sia quando mettono in primo piano entità locali diversificate a seconda del loro luogo e della loro storia, sia quando analizzano le linee di sviluppo che caratterizzano la moda africana odierna – una concezione della bellezza che molto ha a che fare, nel suo miscuglio di localizzazione e ricettività, con le “storie che si congiungono” di cui parla Maxime Rovere.

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Melanie Harteveld Becker

L’ambigua ricerca dell’africanità: fare o non fare “africano”

È significativo che gli articoli, piuttosto che fissare la moda africana a un generico passato “tradizionale”, si confrontino prevalentemente con tradizioni estetiche fatte rivivere in contesti complessi e contraddittori: in breve, con differenze in creazione.

Così come non è irrilevante che gli autori che analizzano il settore dell’alta moda contemporanea non manchino di chiarire l’ambiguità della definizione di “stilista africano”. Precisazione necessaria, dal momento che, se l’idea di un essenzialismo della cultura africana ha da noi radici profonde da parte loro anche gli stilisti africani (più spesso quelli che fanno parte delle reti dell’alta moda e rivendicano una visibilità sulla scena internazionale, meno quelli che lavorano principalmente sui mercati locali), nell’intento di smarcarsi dagli stili occidentali, utilizzano la nostra immagine della “diversità” africana, ora assumendola, ora assecondandola, ora parodiandola. Per quanto, negli ultimi tempi, i creativi di tendenza si mostrino maggiormente sensibilizzati nei confronti delle implicazioni “occidentaliste” di questo luogo comune (nel campo della moda un’esigenza d’emancipazione rispetto ai canoni africani convenzionali era stata peraltro già avvertita da un precursore come Chris Seydou, almeno nel suo ultimo periodo).

Al contempo con e senza territorio – da un lato vincolati a un controverso mai eludibile rapporto con le specificità del vestire locali e neo-locali, dall’altro influenzati dalle mode internazionali – e legati alla sfida, la stessa degli artisti contemporanei africani, di forzare i margini della riduttiva etichetta di “creatore africano”, gli stilisti africani emergenti si cimentano con «modelli di identità assai complessi e identificazioni ambivalenti» (Enwezor e Okeke-Agulu 2009, p. 11). Le loro produzioni, nel riflettere questo scontro tra sensi molto diversi d’appartenenza, vanno oltre – sia che prescindano del tutto dall’elemento etnico, sia che, come accade più frequentemente, lo rielaborino –  l’appiattimento sulla polarizzazione tradizionale/occidentale, e neppure consistono in una sintesi fra i due ambiti.

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Modella di Momo Couture della collezione “Amoureusement vôtre”. 2006, Rouen, France

Con sempre maggiore determinazione in effetti i giovani disegnatori di moda africani contestano le regole del gioco altrui e cercano di sottrarsi alla tendenza, dettata da una condizione di marginalità, di risolvere l’alternativa Africa/Mondo nell’alternativa tradizione/modernità. In sostanza, oggi gli stilisti più avanzati e inventivi non s’identificano certo con i dettami di una “etnicità da supermercato” (Pivin 1998, p. 1) o da fiera artigianale, vale a dire con le categorie estetiche acquisite di un’africanità di maniera. Né intendono considerare lo scontato approdo nell’etnicizzazione della moda (con la relativa assunzione di tutti gli stereotipi riduttivi che il mercato impone nei confronti della creatività africana) come unica alternativa a una ancora più subalterna ricalcatura di modelli d’importazione. Rifiutano di conseguenza di assegnare dei limiti alla loro creatività e di disegnare abiti che “fanno africano”, come se esistesse «una sorta di determinismo culturale che rinchiude l’artista africano nella sua africanità originaria» (Murphy 2002, p. 37).

Anche il campo della moda serve a mostrare che non esiste una sola maniera d’essere africani.

Concordemente, gli articoli lo testimoniano insinuando inoltre il dubbio che, all’interno di un universo di differenze e autenticità sistematicamente prodotte e mercificate, e di complesse interazioni fra forze globali e progetti locali, i processi di riarticolazione delle identità e delle memorie nelle cosiddette periferie del mondo globalizzato siano più inventivi, adattativi e spregiudicati di quanto siamo soliti immaginare.

In effetti, nel dossier l’aspetto creativo e dinamico delle contro-appropriazioni africane sul terreno del consumo e dell’estetica (terreno su cui notoriamente si basa il postmoderno) non risulta certo un fenomeno trascurabile.

Alcuni contributi si soffermano proprio sulla maniera sperimentale e vissuta con cui nelle Afriche attuali il culto dell’apparire riesce oggi a trasformarsi, attraverso continui scambi e approssimazioni, conservando aspetti essenziali delle rappresentazioni d’identità e delle specificità performative “tradizionali” per affrontare la sfida del senso in scala locale (Ndiouga Benga, Uche Nnadozie, Masana Chikeka). Dimostrandoci anche come, in certi casi, si arrivi e a performare l’identità mediante l’accumulo delle diversità (Alessandra Brivio, Marie-Amy Mbow), e ad utilizzare la moda per negoziare la memoria (Erica de Greef).

Inoltre, più o meno esplicitamente, tutti i saggi affrontano l’aspetto della ridefinizione dei modelli vestimentari in relazione a strategie identitarie, mentre più di un saggio rimanda alle implicazioni politiche della moda e alle tensioni fra l’identità africana e le aspettative dei mercati non africani. Chiamando in causa i rapporti dell’Africa con il resto del mondo. Sia che si prendano in considerazione le fluttuazioni dei valori dei tessuti d’importazione nell’Africa orientale precoloniale (Karin Pallaver); sia che si ricostruiscano le complesse traiettorie dei tessuti African print (Ann Gollifer) e, in particolare, del tessuto wax-print, caso esemplare di riappropriazione produttiva e culturale da parte degli africani data la sua straordinaria affermazione in Africa come vettore di gerarchie sociali (Nina Sylvanus); sia che si affronti il tema dell’abbigliamento africano nella letteratura narrativa postcoloniale (Francesca Romana Paci); sia che si parli, relativamente al Sudafrica, delle dinamiche della due principali reti della moda urbana africana contemporanea: una, quella della moda “ufficiale” e mediatizzata dei fashion designer della haute couture, e l’altra, quella della moda informale e non mediatizzata dei sarti delle piccole boutiques-ateliers di strada (Lakshmi Pater); sia che ci si interessi di una delle figure di maggior spicco della prima generazione dell’alta moda africana, quella del pioniere Chris Seydou (Victoria Rovine); sia ancora che si rifletta su come gli odierni fashion designer africani spesso «si servano della moda per manipolare i codici dei rapporti Europa/Africa, e rivendicare un posto sulla scena internazionale» (Anne Grosfilley); sia, infine, che si metta in luce l’esistenza di un design di moda africano etico e responsabile che fa appello al discorso sull’ecologia per dare futuro e visibilità all’Africa (Novell Zwangendaba).

Come era nelle nostre intenzioni quindi, è proprio “nonostante” la loro diversità che i contenuti degli articoli arrivano a confermare «il tessuto e il vestito quale specchio della cultura in Africa» (Perani e Wolff 1999, p. 2), nonché a mostrare come gli attori dello spettacolo-moda africano e la loro immaginazione operino ormai nel quadro di una rete globale di influenze.

Un mondo d’identità multiple

La moda africana d’altronde non è mai stata isolata dalle idee e dalle tendenze del resto del mondo.

Non data certo da oggi la capacità delle società africane di adattare in forme creative elementi esterni e di combinare diverse modalità simboliche nei propri regimi d’identificazione estetica. Come del resto, più in generale, di rinegoziare le identità e integrare i cambiamenti, mediando tra vecchie e nuove logiche e vecchi e nuovi poteri.

Prodotto di rapporti di forza subiti o negoziati e delle tante altre forme di condizionamento e di controllo che in Africa hanno fatto la loro comparsa nella storia più o meno recente, le culture identitarie della maggior parte delle società subsahariane hanno un carattere profondamente dinamico. Da cinque secoli l’economia europea e le economie africane si frequentano e s’influenzano dando vita a una articolazione complessa e mobile fra più scale di valori. Analogamente, è almeno a partire dal quindicesimo secolo che, come ci fa ricordare Achille Mbembe (2005, p. 19), non esiste più una storicità “caratteristica” delle società africane, «una storicità cioè che non sia parte integrante delle temporalità e dei ritmi massicciamente condizionati dal dominio europeo». Ed è dunque ben prima dell’odierna “età della postcolonia” (l’espressione è ancora di Mbembe) che in Africa sogni e fantasmi della nostra modernità hanno fatto irruzione in quella terra di mezzo fra desideri e regole che possiamo definire l’immaginario della bellezza.

Giovanna Parodi da Passano è docente di Etnologia e Antropologia del Turismo nel corso di laurea triennale in Scienze geografiche per il territorio, il turismo ed il paesaggio culturale, e di Culture ed estetica dell’Africa nel corso di laurea magistrale in Antropologia culturale ed Etnologia. Africanista di formazione, attualmente si occupa dei culti legati ad associazioni di maschere e di estetica della rappresentazione nello spazio culturale yoruba sudoccidentale; della musealizzazione di oggetti e memorie inerenti ai culti afro-cubani; di arte contemporanea africana; di turismo e patrimonio in Africa. Su questi temi negli ultimi anni ha pubblicato studi e partecipato a convegni internazionali

Note

1 – Sulle pratiche vestimentarie e sui tessuti in Africa cfr., fra gli altri, Peter Adler e Nicholas Barnard (1992), Jean Allman (2004), Misty Bastian (1996), Joanne B. Eicher (1995), Ch. Didier Gondola (1999 a e b), Karen Tranberg Hansen (2000), Hildi Hendrickson (1996), Phyllis M. Martin (1986, 1994), Judith Perani e Norma H. Wolff (1999), John Picton (1995), John Picton e John Mack (1979), Elisha P. Renne (1995), Josette Rivallain (1988), Roy Sieber (1972), Fred T. Smith e Joanne B. Eicher (1982), Wass (1979). Sulla moda contemporanea in generale e, in particolare, sul lavoro degli stilisti della haute couture africana cfr. Bérénice Geoffroy-Schneiter (2005), Ilsemargret Luttmann (2005), Renée Mendy-Ongoundou (2002), Hudita Nura Mustafa (2002), Leslie W. Rabine (2002), Revue Noire (1997-98), Victoria L. Rovine (2004, 2007, 2008), Els van der Plas e Marlous Willemsen (1998)