23 agosto 2024

Samwel Japhet, dall’infanzia nelle strade della Tanzania alla danza

«A 6-7 anni ho lasciato la mia casa e ho vissuto come bambino di strada in Tanzania per 10 anni. Dico ‘in Tanzania’ perché non sono stato in un solo luogo, ho girato in varie città

Samwel Japhet è un giovane performer tanzano che sta velocemente costruendo una carriera a livello nazionale e internazionale, ma ha iniziato da una condizione estremamente svantaggiata. Un’infanzia e un’adolescenza durissime e pericolose, che lui ha saputo trasformare nell’esperienza fondamentale per il nutrimento della sua ispirazione. L’ho incontrato a Dar es Salaam.

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Samwel Japhet, 2024

S.F. Perché hai lasciato la tua famiglia?
S.J. Sono fuggito perché venivo picchiato molto. E così sono finito in strada, a vivere con altri bambini, era pericoloso e difficile ma mi sentivo comunque meglio lì che nella situazione di abuso che c’era a casa. Dopo essermi spostato in vari luoghi, nel 2009 sono arrivato a Dar es Salaam e nel 2010 ho incontrato Makini, un’organizzazione non profit che aiutava i bambini di strada: ci raccoglievano, ci facevano giocare, nuotare e ci offrivano anche una terapia per superare i traumi della vita in strada. Dopo un po’ hanno cominciato a portarci in vari spazi pubblici, tra cui centri culturali e artistici, così ci hanno introdotto all’arte, di cui noi non sapevamo niente. Hanno organizzato formazioni nell’arte performativa: workshop di teatro, musica, danza, e abbiamo fatto performances comunitarie.

 S.F. In quel periodo dove vivevi?
S.J. Sempre in strada. Loro ci insegnavano a vivere insieme e ad aiutarci a vicenda mentre vivevamo nelle strade. Makini era uno spazio per riflettere e metterci in una relazione migliore tra noi. Era una vita folle, quella in strada, ma è stata anche l’inizio della mia carriera artistica e continua a influenzare anche oggi il mio lavoro. Quel periodo ha formato le mie aspirazioni e prospettive, ho imparato che la vita, anche se fragile, è un viaggio in costante evoluzione in cui abbiamo il potere di formare nuove realità nonostante le difficoltà che affrontiamo, personalmente e nella società. E io ho deciso di farlo attraverso l’arte.

Nel 2013 ho fatto un’audizione per entrare nel programma triennale della MUDA Africa Dance School in Tanzania e sono stato ammesso. Sono stato formato professionalmente dal 2014 al 2016 e mi sono diplomato. In questo periodo ho avuto il privilegio di collaborare con artisti internazionali, tra cui Nora Chipaumire, una coreografa e performer nata in Zimbabwe e basata a Brooklyn, che ha sfidato gli stereotipi dell’Africa, del corpo nero danzante, e mi ha introdotto a un nuovo modo di pensare, a scoprire la mia voce artistica personale, a definire un mio primo manifesto artistico. È stato un momento fondamentale, che mi ha indicato una prospettiva e acceso una grande ambizione dentro di me a perseguire una carriera come danzatore e coreografo. E mentre entravo più profondamente nel mondo della danza, diventavo più curioso su quanto si poteva fare con la danza e le varie forme artistiche, allargando i miei interessi.
Intanto, nel 2015, con Tadhi Alawi ho co-fondato una compagnia di danza, Nantea, che ora è la mia compagnia.

S.F. Qual è la vostra attività come gruppo?
S.J. Facciamo progetti comunitari, collaborazioni interculturali, produzioni, tournée. Abbiamo prodotto lo spettacolo “YIN-YANG“, che stiamo portando in tour fuori dalla Tanzania.
Usiamo la danza come un’espressione artistica per raccontare storie, riflettere su temi sociali e sull’esperienza umana, sul nostro tempo e sulla politica. I temi che esploriamo sono gli squilibri sociali, la dignità, il conflitto, memoria e uguaglianza, creando spazi in cui il pubblico può riflettere e immaginare futuri alternativi. Vogliamo sviluppare la scena della danza tanzaniana e ispirare i giovani a diventare ambasciatori di crescita e cambiamento sociale, realizzare un lavoro di alta qualità e costruire una cultura in cui l’arte abbia un valore proprio.

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Samwel Japhet (secondo da destra) con altri bambini di strada

S.F. Quanti anni hai?
S.J. Non lo so! (sorride) Penso di avere 25-26-27 anni.

S.F. Hai ripreso i contatti con la tua famiglia? Sanno del tuo percorso?
S.J. Non vedo ragioni per ricreare una relazione. Loro non hanno nessuna idea della mia vita di adesso. Quando stavo in strada, cambiavo sempre nome per non essere ritrovato, anche se non credo che mi cercassero. Comunque non avevo documenti, e mi sono creato un nome e un cognome scelti da me. Poi ho avuto i documenti.

S.F. Hai fratelli, sorelle?
S.J. Ricordo che avevo una sorella, ma lei stava spesso via con mia madre. Mia madre era spesso in viaggio, credo per lavoro, e se la portava con sé. Comunque ricordo bene di non avere avuto una stretta relazione con mia madre.

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Samwel Japhet con altri bambini di strada

S.F. Riesci a vivere autonomamente?

S.J. Sì, vivo con l’arte, la danza, l’organizzazione di performance. Con la compagnia Nantea, io e Tadhi facciamo progetti, ed è il nostro lavoro. Siamo stati in vari festival e teatri nei Paesi Bassi, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Germania, Mozambico, Portogallo, Etiopia. Ad esempio nel 2022 abbiamo voluto invitare artisti da altri paesi africani e dall’Europa per lavorare insieme, e abbiamo fatto un progetto finanziato dall’Unione europea, per due anni. Si intitolava UMOJA Residency e abbiamo riunito nove artisti e artiste di varie discipline da Francia, Kenya, Lettonia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Spagna e Tanzania per una residenza di cinque settimane a Dar es Salaam. Io ero co-manager del progetto.

S.F. È stato complicato con la burocrazia europea?
S.J. Un po’ difficile, sì, soprattutto perché non ho una educazione.

S.F. Sei andato a scuola? Come hai fatto a imparare a leggere e a scrivere? E l’inglese?
S.J. Quando ho lasciato la mia casa avevo già un’idea di come scrivere in swahili, ho ricordi di essere andato a scuola. Partendo da questa base, e stando in strada, leggevo qua e là e insomma in qualche modo ho imparato. Così per l’inglese. Anzi, mi piace scrivere, preferisco scrivere che parlare.

S.F. Parlami del lavoro con la tua compagnia di danza.
S.J. Con Nantea abbiamo iniziato a fare spettacoli nel 2016, la prima performance è stata in Rwanda. Organizziamo una serata biennale di danza contemporanea, con spettacoli di danza tanzaniani e dell’Africa orientale. La compagnia gestisce anche “Nje Ndani”, un progetto di sensibilizzazione attraverso la danza strutturato per accrescere conoscenze e competenze di danzatori emergenti tanzani attraverso workshops, seminari, e dialoghi aperti sull’espressione artistica e l’impresa creativa. Ora l’abbiamo estesa invitando produttori da Uganda, Congo, Zimbabwe, e poi dalla Germania.

S.F. Hai detto che attraverso la danza vuoi narrare storie. Come lo fai?
S.J. La nostra danza non è solo espressione artistica, ma anche riflessione su questioni sociali, sull’esperienza umana e lo facciamo usando testo, musica, movimento, linguaggio verbale, costumi… Combiniamo tutte queste cose, e così narriamo la storia. Di solito collaboriamo con altre persone, con designer dei costumi e musicisti che registrano musiche apposta per gli spettacoli.
Normalmente dopo ogni performance dialogo con il pubblico, non con domande e risposte, ma in una sessione di riflessione, per far loro esprimere come hanno vissuto la performance, come si sono sentiti.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Avete avuto problemi con la censura?
S.J. Sì, perché in Tanzania non è permesso stare sul palcoscenico con il corpo praticamente nudo. Ci hanno detto che andavamo contro la cultura tanzaniana. Bisogna essere molto attenti.

S.F. Dovete praticare un’auto-censura.
S.J. Sì, è proprio così, ci auto censuriamo!

S.F. Quindi come artista devi affrontare molte sfide?
S.J. Sì, certo, la precarietà del mondo dell’arte, le limitazioni alla libertà di espressione, i sistemi discriminatori, il problema dei visti e l’instabilità finanziaria hanno avuto un impatto sul mio percorso. In Tanzania, ad esempio, impegnarsi in attività artistiche richiede la registrazione presso il National Arts Council (BASATA), che comporta quote iniziali e annuali, oltre ai costi per i viaggi internazionali correlati all’arte. Questo ostacolo burocratico aggiunge complessità al già difficile processo di espressione artistica in Tanzania. Quando noi artisti usciamo dalla Tanzania dobbiamo avere un permesso di viaggio che costa 15 euro. Può sembrare niente, ma so di molti che non hanno potuto viaggiare perché non avevano il denaro. E poi, perché questa tassa solo per gli artisti? E a volte ci sono stati gruppi che hanno perso il lavoro per questioni burocratiche.

S.F. E ovviamente la mancanza di libertà espressiva.
S.J. Sì, ma noi crediamo comunque di poter fare attivismo attraverso l’arte: denunciare, fare riflettere su problemi come le limitazioni nella società, o il razzismo. Ad esempio, il mio collega Tadhi ha avuto l’esperienza a Zanzibar di essere fermato al suo arrivo dalla polizia, perché era con la moglie tedesca, bianca. La nostra performance “YIN-YANG” parla anche di questo, è nata dalla sua esperienza personale di aver subito razzismo interno (cioè discriminazione tra persone che condividono la stessa cultura), di cui nessuno parla. A lui è successo tante volte a Zanzibar, un luogo rinomato per la sua bellezza ma dove lui non si è mai sentito a casa perché, ogni volta che ha visitato l’isola con amici bianchi, ha sempre assistito a privilegi razziali. È stato fermato tante volte dalla polizia e interrogato su perché “andava in giro con persone bianche senza permesso”, mentre la polizia non ha mai chiesto ai suoi amici bianchi perché andavano in giro con lui. Questa esperienza mostra che il doppio standard basato sulla razza è ancora profondamente radicato nelle strutture della società, anche tra persone che condividono lo stesso background. Questo fastidioso doppio standard ha fatto riflettere Tadhi sul suo senso di appartenenza e sulla libertà nel suo stesso paese e ha cominciato a discuterne, e sono uscite diverse testimonianze di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Queste conversazioni e questa esperienza sono state le basi per la creazione della performance “YIN-YANG”.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Un argomento di chi è favorevole alla censura è che serve a proteggere la cultura originaria del paese da influenze che vengono dall’esterno.
S.J. Io penso che anche prima che le persone facessero campagne per i diritti esistevano in Tanzania determinati orientamenti. Però bisogna seguire delle regole: il National Council ha prodotto un vademecum con una check list sulle cose da controllare prima di proporre un’opera. Io comunque voglio continuare a raccontare storie: sono consapevole di avere avuto una grande fortuna, mentre ci sono tante persone come me che non possono raccontare le loro storie.

Samwel Japhet ha vinto nel 2021 il Seed Award del Prince Claus Fund for Culture and Development in Olanda. Ha ottenuto una borsa di studio per essere formato, nel 2024-2026, nel Laboratory for Global Performance and Politics della Georgetown University, Washington D.C. Comincerà in settembre le lezioni online e in giugno 2025 sarà in Umbria per la prima sessione in presenza presso laMaMa Umbria International.

Mentre mi racconta di come ha vissuto da bambino, di come ha imparato l’inglese in strada, di come si è costruito una carriera artistica, mi colpisce la sua pacatezza, la concretezza e persino auto-ironia del suo discorso e, devo dirlo, un’impressione di totale equilibrio psicologico. Non dà l’idea di essere una persona che nasconde una sofferenza interiore, ma piuttosto di essere molto capace e attivo nel perseguire il suo lavoro culturale e nel tessere relazioni. Poche ore dopo il nostro incontro mi aveva già mandato una e-mail con il curriculum, un suo statement e alcune foto. Insomma, è sicuramente un giovane artista con risorse umane e caratteriali fuori dal comune, che ha saputo permettere alle relazioni, alle occasioni fortunate e all’arte di curare i suoi traumi.

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12 dicembre 2023

“Orizzonti Interculturali” l’Open Day al Centro Interculturale Zonarelli sabato 16 dicembre con proposte per tutte le età

Un sabato pomeriggio di immersione nelle ricchezze interculturali di Bologna dedicato a famiglie, giovani lavoratori e lavoratrici, bambini e bambine, con laboratori, dibattiti e proiezioni cinematografiche.
Invito aperto a tutti e tutte per Sabato 16 dicembre a partire dalle 15 al Centro Interculturale Zonarelli in Via Giovanni Antonio Sacco 14, all’evento che alcune organizzazioni che lavorano all’intercultura e all’inclusione hanno organizzato nell’ambito del progetto “Orizzonti Interculturali”, finanziato dal Settore Innovazione e semplificazione amministrativa e cura delle relazioni col cittadino del Comune di Bologna.

Una giornata in cui ogni associazione apporta un contributo particolare, tanto che il programma si sviluppa contemporaneamente in due sale, una dedicata al dibattito e all’approfondimento, l’altra dove si svolgeranno le attività artistiche e ludico-motorie.

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Si comincia alle ore 15:00 nella sala Polivalente con la sfilata di costumi tradizionali delle etnie vietnamite a cura dell’associazione Associazione Italia-Vietnam Ponte tra Culture e si proseguirà con la proiezione del video realizzato dall’Associazione Dry Art che presenta tutte le associazioni che partecipano al progetto. A seguire in due parole si auto-presenteranno le associazioni e sarà approfondito lo Sportello Antidiscriminazioni SPAD a cura di Africa e Mediterraneo.
Alle ore 16:00 sarà il momento di “Nero Nomade Film Festival”: Cineforum itinerante a cura di BHMBO – con la proiezione di un cortometraggio e dibattito per affrontare la tematica del dialogo interculturale e interreligioso, attraverso il cinema d’autore realizzato da registi neri e afro-discendenti presenti in Italia e non conosciuti dai circuiti classici.  Alle ore 17:30 sarà la volta del dibattito a cura di Geopolis dal titolo “Africa Instabile”. Qual è lo stato di salute del continente africano? Conflitti e colpi di stato hanno segnato l’anno che si avvia alla sua conclusione. In Africa è in atto un processo di de-occidentalizzazione, i paesi africani stanno cercando di rendersi più indipendenti o nuove dinamiche geopolitiche la stanno conducendo a nuovi corsi? Cosa ha determinato il considerevole aumento dei flussi migratori ai nostri confini, in particolare dalla Tunisia? Alcune potenze europee lasciano sempre più campo ad altri paesi come Cina, Russia e Turchia la gestione del continente, o quello a cui stiamo assistendo è una sconfitta della strategia occidentale, in particolare europea? La Francia si allontana sempre più dalle proprie colonie, il nostro paese che ruolo e quale tipo di influenza è ancora capace di esercitare? Il dibattito sarà condotto da Luciano Pollichieni, collaboratore di Limes e analista fondazione Med-Or ed Elia Morelli, Ricercatore di storia (UniPisa) e analista geopolitico (Domino), con la moderazione di Stefano Totaro (Geopolis). Interverrà per i saluti istituzionali Rita Monticelli, docente dell’Università di Bologna e consigliera comunale con delega per i diritti e il dialogo interreligioso.

Partirà alle 15:30 nell’altra sala “Arte in Gioco” – un mondo di colori per colorare il mondo: laboratorio di lettura con il Kamishibai della storia Stella di Fuad Aziz e rielaborazione grafico-pittorica. A cura di TotemLab APS e Associazione MondoDonna Onlus. Dopo un momento doverosamente dedicato alla merenda, alle ore 17:00 le ACLI Provinciali di Bologna proporranno “Dall’io all’altro, tra danze, culture e religioni”, laboratorio di Ludo-danza e meditazione che unisce i percorsi realizzati per gli studenti delle scuole secondarie di I grado di Bologna all’interno del progetto: metodologie e contenuti che testimoniano la ricchezza della diversità e l‘esser fratelli tutti.

Si termina insieme alle ore 18:00 con il cerchio interculturale e artistico di condivisione promosso da Arte Migrante, in cui adulti e bambini potranno proporre una performance di ballo, musica, canto, poesia e altro.

Gli enti che partecipano al progetto sono: Associazione interculturale per inserimento lavorativo di volontariato AIPILV, Associazione Universo Interculturale, Geopolis, Associazione Italia-Vietnam Ponte tra Culture, Africa e Mediterraneo, Arte Migrante, Dry-Art Ets, TotemLab APS, Black History Month Bologna – BHMBO, Acli Provinciali di Bologna, MondoDonna Onlus.

Per i dettagli sul programma:
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13 settembre 2023

Essere donna oggi in Ghana: il romanzo “L’unica moglie” di Peace Adzo Medie

La prima scena del romanzo d’esordio di Peace Adzo Medie, accademica nata in Liberia ma cresciuta in Ghana, studiosa delle politiche contro la violenza delle donne presso l’Università di Bristol, descrive la cerimonia di un matrimonio combinato vissuta dal punto di vista della giovane sposa. La prima cosa che la ragazza ci dice è che il suo promesso sposo non c’è: il matrimonio avverrà “in absentia”, perché il futuro marito è in viaggio di lavoro e sarà rappresentato dal fratello. Dai pensieri di Afi Tekple capiamo che lei, convinta dalla madre, ha accettato di sposare il ricco, bello e brillante uomo d’affari Elikem Ganyo, figlio di una potente commerciante – Zietta – che ha beneficiato la madre di Afi dopo la morte del marito, e che spera così di allontanare il figlio da una misteriosa compagna liberiana, non gradita alla famiglia. Questa scelta consente alla giovane Afi di sperimentare il passaggio tra le due punte lontanissime della forbice che separa le famiglie povere dalla nuova rampante classe medio-alta di imprenditori e politici. Si trasferisce infatti dalla cittadina di Ho ad Accra per iniziare la sua nuova vita da moglie, in un quartiere per nuovi ricchi con servitù e appartamento equipaggiato di elettrodomestici che lei non sa usare.

Schermata 2023-09-13 alle 11.31.44La sua inquietudine per la strana assenza del marito è ignorata dalle due famiglie che la spingono ad accettare il ruolo di bella moglie silenziosa, spendacciona e ubbidiente di un uomo che in realtà non vuole lasciare un’altra donna. Ma Afi fa domande, chiede spiegazioni, pretende che il marito sia presente, inizia a formarsi come stilista… I parenti potrebbero pensare che la sua sia solo la lotta per essere l’unica moglie, e inizialmente anche lei lo pensa, mentre invece è un vero e proprio cammino verso l’emancipazione e l’indipendenza.

Non stupisce il fatto che i diritti del libro siano stati presto acquisiti da produttori statunitensi di cinema e serie, perché la storia cattura chi legge quasi come un romanzo rosa, con “illusioni” romantiche alternate a momenti di frustrazione a cui la protagonista, consigliata e sostenuta da altre giovani donne, risponde con sempre maggiore coscienza femminista, sganciandosi con determinazione, seppur lentamente, dagli obblighi di obbedienza alla madre e ai parenti che fanno parte dell’ambiente culturale in cui è cresciuta. Figura simbolo di questo ambiente è lo zio Pious, parassita che vive alle spalle delle numerose mogli, trascurando i figli e pretendendo elemosine dai nuovi parenti in nome di una pretesa autorevolezza morale.

Dal punto di vista narrativo il romanzo ha un andamento un po’ disomogeneo, passando dalle minuziose descrizioni dei rapporti e dialoghi tra i personaggi della prima parte a passaggi un po’ frettolosi nella parte finale, verso lo scioglimento della vicenda. Lo stile di Peace Adzo Medie è neutro, con alcune parole in lingua originale soprattutto in riferimento al cibo e a modi di dire in gergo locale, elencate nel glossario finale.

Il libro offre un’interessante rappresentazione delle contraddizioni sociali di un paese in crescita come il Ghana: nell’esperienza di Afi si ritrovano infatti sia la vita povera di un villaggio rurale sia l’estremo lusso dei magnati della politica, del commercio e della finanza. Non mancano inoltre il settore della moda – con le nuove stiliste che si affermano producendo costosi abiti e accessori per le classi alte – lo sviluppo immobiliare, gli affari facili, il traffico incontrollabile della metropoli.

Afi trova la propria strada tra le donne costrette alla subordinazione dalla povertà e quelle che vivono la condizione di “oggetto” di uomini ricchi con consapevolezza e traendone il massimo vantaggio.

*
Peace Adzo Medie
L’unica moglie
Francesco Brioschi editore 2022
Collana Gli Altri
Traduzione di Gabriella Grasso

Il libro è acquistabile qui:
https://www.brioschieditore.it/catalogo-libri/l_unica_moglie.aspx

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29 luglio 2020

Un tempo senza lingua. La povertà educativa delle famiglie straniere durante l’emergenza Covid-19

La didattica a distanza (DAD) ha fatto emergere le differenze, più che costruire inclusione. A sottolinearlo è il Sottosegretario dell’Istruzione Giuseppe De Cristofaro nel recente documento E’ la lingua che ci fa uguali. Note per ripartire senza dimenticare gli alunni stranieri, diffuso dall’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’intercultura. Il 33,8% delle famiglie in Italia non è in possesso di un tablet o un pc (Istat 2019). Inoltre il 57% dei minori deve condividere gli strumenti informatici con i familiari, e il 41,9% vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo. L’emergenza Covid-19 ha reso sempre più evidenti le diseguaglianze nell’ambito dell’istruzione: molti alunni stranieri nati in Italia, che costituiscono il 10% della popolazione scolastica complessiva secondo il comunicato stampa del Centro Studi e Ricerche IDOS, sono stati penalizzati dal lockdown e dalla chiusura delle scuole.

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Alla povertà economica delle famiglie di origine immigrata si accompagna una povertà educativa per mancanza di dispositivi digitali e di una connessione internet adeguata, inoltre le basse competenze linguistiche dei genitori non agevolano il supporto didattico dei figli. Gli alunni stranieri devono affrontare anche il problema della lingua italiana: la scuola è il luogo privilegiato in cui l’esposizione alla seconda lingua è intensa, continuativa e quotidiana, ma se questo percorso è interrotto, si bloccano anche le possibilità di apprendimento, rischiando di regredire in un tempo “senza lingua”, come esplicita Giuseppe De Cristofaro. Per questo motivo, a fronte anche di una riapertura delle scuole a settembre, occorre intervenire con misure compensative a partire dai mesi estivi, promuovendo progetti, laboratori e attività extrascolastiche per agevolare gli alunni stranieri nell’apprendimento linguistico, scolastico e digitale.

La pandemia ha messo in evidenza le debolezze di un sistema scolastico ancora sprovvisto di tutte le risorse organizzative e professionali necessarie. Luca Di Sciullo, presidente del Centro Studi e Ricerche IDOS, attribuisce la responsabilità alla lentezza politica e istituzionale italiana, che ostacola l’integrazione e l’inclusione sociale e culturale.

Occorre, dunque, superare l’illusione di una strategia didattica standardizzata, e quindi l’idea di una “normalità” basata sull’omogeneità di chi apprende, e privilegiare invece una visione di didattica come realtà caratterizzata da un’ampia pluralità di bisogni e necessità individuali. La didattica inclusiva dovrebbe essere intesa come una trasformazione dell’ambiente educativo, che coinvolge e favorisce l’intera comunità scolastica, valorizzando le diversità culturali.

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31 ottobre 2019

Emergenza, comunità, resilienza. È aperta la nuova call for papers della rivista Africa e Mediterraneo

Resilienza è diventata, negli ultimi anni, una parola particolarmente fortunata, che, grazie alla sua forza evocativa e metaforica, risuona negli ambiti più diversi. Termine che trae le sue origini nell’ambito della fisica, dove è usato per descrivere la capacità di un materiale di resistere a un urto assorbendo energia, è poi transitato in diversi ambiti disciplinari: in psicologia, nello studio del trauma e delle sue conseguenze (Cyrulnik 2002; Bonanno et al. 2004; Masten, Cicchetti 2012; Vanistendael, Lecomte 2000), ma anche in urbanistica, spesso in relazione alla sostenibilità ambientale, in sociologia, antropologia, economia…per poi proliferare nel mondo della comunicazione di massa, dal giornalismo ai social.

Questa molteplicità di usi (e abusi) ha sollevato anche molti dubbi sulla sua reale capacità esplicativa: si tratta di un’utile parola-chiave, di uno strumento analitico per meglio comprendere la contemporaneità, o di una semplice moda? Resilienza, insomma, è un termine che rischia di logorarsi, di perdere significato – o anche, in un riflesso uguale e contrario, di diluirsi e allargarsi, fino a significare troppo.

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Nella consapevolezza di questa possibile dispersione semantica, e cercando di valorizzare il concetto di resilienza in termini di ricaduta socio-culturale reale, il Dossier di Africa e Mediterraneo in programma vuole affrontare il tema da un punto di vista molto specifico: la stretta connessione tra la costruzione di comunità e territori resilienti e l’inclusione dei cittadini più vulnerabili.
Da un lato, infatti, è assodato che un tessuto sociale coeso potrà resistere meglio di fronte alle emergenze (Colucci, Cottino 2015), e si diffonde la consapevolezza di dovere adottare strategie di community-based disaster risk reduction (CBDRR) (Shaw 2016); d’altro lato bisogna constatare che la maggior parte degli abitanti più vulnerabili rimane esclusa dalle infrastrutture della resilienza, o perché vive in zone disagiate, o a causa di barriere linguistiche o culturali.
Creare comunità resilienti significa allora, necessariamente, creare comunità più eque (si veda anche il progetto “100 resilient Cities”). In quest’ottica, in una società caratterizzata da un multiculturalismo crescente, una comunità resiliente cresce riconoscendo le differenze e valorizzando gli elementi di coesione, sia in tempi di normalità sia in fasi di emergenza (per calamità naturali e/o provocate dagli esseri umani).
Ci interessa quindi ragionare sulla resilienza come competenza della comunità, per costruire le condizioni per affrontare l’emergenza senza escludere nessuno. In questo ambito però la resilienza è da considerare anche come competenza dell’individuo, approccio fondamentale per favorire processi di empowerment, in cui i singoli possano sviluppare una propria linea di azione e reazione rispetto alla catastrofe e alla difficoltà improvvisa, ricostruendo e ripristinando un, seppur precario, orizzonte simbolico (Lecomte 2002; Luthar, Cicchetti, Becker 2000; Manetti et al. 2010).

Le proposte potranno trattare, i seguenti temi, ma non solo, secondo vari approcci disciplinari:

  • Gestione delle emergenze in contesti multiculturali;
  • Disaster management e disaster preparedness nei conflitti;
  • Cambiamenti climatici: emergenze ambientali e multiculturalismo / multilinguismo;
  • Costruzione di città resilienti con l’integrazione di cittadini di Paesi terzi: l’attività di prevenzione del rischio coinvolgendo le comunità non native;
  • Per una concezione transculturale di resilienza (Ungar 2008): punti di vista delle comunità minoritarie;
  • Aspetti normativi e legislativi: quali sono gli ostacoli normativi per una resilienza democratica e inclusiva?
  • Approccio di genere alla gestione dell’emergenza, verso la costruzione della resilienza femminile;
  • Migranti come individui resilienti: le capacità di resilienza possono essere considerate competenze individuali, di gruppo, di comunità e culturali possedute dai migranti già dal momento in cui decidono di lasciare il loro paese, o sviluppate col tempo, in risposta alle condizioni di vita sfavorevoli.
  • Resilienza ed educazione: importanza dell’educazione interculturale per la resilienza di bambini/e, ragazzi/e con background migratorio (Vaccarelli 2016)

Scadenza per l’invio:

Le proposte (400 parole al massimo) dovranno pervenire entro il **25 novembre 2019** agli indirizzi s.federici@africaemediterraneo.it e s.saleri@laimomo.it.
Le proposte saranno esaminate dal comitato di redazione. In caso di accettazione la consegna del contributo, completo di abstract (100 parole, preferibilmente in inglese, ma è possibile inviarlo anche in italiano) e bionota, dovrà avvenire entro il **20 dicembre 2019**.
Africa e Mediterraneo si avvale di peer reviewers. Gli articoli e le proposte potranno essere inviate nelle seguenti lingue: italiano, inglese e francese.

Bibliografia

Ballarin, M. Bignami, et al. (a cura di), Emergenze e intercultura: l’esperienza del sisma in Emilia-Romagna nel 2012, Lai-momo, Sasso Marconi 2014;
G.A. Bonanno, Loss, Trauma, and Human Resilience: Have we Underestimated the Human Capacity to Thrive after Extremely Aversive Events?, in «American Psychologist», vol. 59, n° 1, 2004, pp. 20-28;
Colucci, P. Cottino (a cura di), Resilienza tra Territorio e Comunità. Approcci, strategie, temi e casi, Collana “Quaderni dell’Osservatorio” Fondazione Cariplo, n. 21, Anno 2015;
Cyrulnik, Un Merveilleux malheur, Éditions Odile Jacob, Paris 2002;
Lecomte, Qu’est-ce que la résilience? Question faussement simple. Réponse nécessairement complexe, in «Pratiques Psychologiques (La résilience)», n. 1, Editeur L’Esprit du temps, Le Bouscat 2002;
S.S. Luthar, D. Cicchetti, B. Becker, The construct of resilience: A critical evaluation and guidelines for future work, in «Child Development», n. 71, 2000, pp. 543–562;
Manetti, A. Zunino, L. Frattini, E. Zini, Processi di resilienza culturale: confronto tra modelli euristici, in B. Mazzara (a cura di), L’incontro interculturale tra difficoltà e potenzialità, Unicopli, Milano 2010, pp. 97-106;
A.S. Masten, D. Cicchetti, Risk and Resilience in Development and Psychopathology: The Legacy of Norman Garmezy, in «Development and Psychopathology», n° 24, 2012 pp. 333-334;
Shaw, Community Based Disaster Risk Reduction, Oxford University Press USA, Oxford 2016;
Ungar, Resilience across Cultures, in «British Journal of Social Work», vol. 38, n° 2, 2008, pp. 218-235;
Vaccarelli, Le prove della vita. Promuovere la resilienza nella relazione educativa, Franco Angeli, Milano 2016;
Vanistendael, I. Lecomte, Le bonheur est toujours possible. Construire la résilience, Bayard Culture, Paris 2000;
Project “Amare-EU. A multicultural approach to resilience”, www.amareproject.eu/about-the-project/.

Di seguito è possibile leggere e scaricare la call for papers (in italiano e inglese):

 

English version

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15 maggio 2019

Al Festival delle Culture di Ravenna una mostra che racconta l’immigrazione

Si chiama Tracce Migranti. Nuovi paesaggi umani il libro collettivo curato da Maurizio Masotti, che raccoglie testi e fotografie sui movimenti migratori a partire dal 1998 nella provincia di Ravenna, ma anche sui passaggi di migliaia di persone attorno a Ventimiglia verso la Francia, e gli accampamenti dei lavoratori stranieri in Calabria. I testi sono di Carla Babini, Francesco Bernabini, Marina Mannucci, Maurizio Masotti e Paolo Montanari, mentre le fotografie sono del fotografo ravennate Luca Gambi e del reporter Luciano Nadalini, fotografo della cronaca bolognese e di complesse situazioni sociali in Palestina, nei Balcani, nei Paesi Baschi (Spagna), in Medio Oriente, in Africa, in Centro America.

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(Foto di Luca Gambi)

Si inaugurerà una mostra fotografica di questo progetto mercoledì 15 maggio 2019 alle 18.30 al Palazzo Rasponi (via D’Azeglio 2) a Ravenna all’interno del Festival delle Culture, e sarà possibile visitarla fino al 26 maggio. Un appuntamento di confronto sul tema dell’immigrazione, attraverso una selezione delle immagini che si trovano nel volume, e che raccontano modelli di integrazione e inclusione sociale sulla base di esperienze e testimonianze.
Ad esempio, Marina Mannucci testimonia un’interessante esperienza didattica che ha coinvolto un gruppo di bambine e bambini rom al Centro Quake di Ravenna, e che l’ha portata a una riflessione sul ruolo della scuola nell’integrazione delle famiglie immigrate e sulla necessità di ripensare la pratica didattica in nome del pluralismo interculturale. Luca Gambi, invece, riporta alcune fotografie scattate tra giugno e luglio 2018 in un luogo emblematico come la baraccopoli di San Ferdinando (Calabria), dove viveva Soumaila Sacko, il giovane sindacalista del Mali ucciso il 2 giugno. Una sezione iniziale del libro presenta invece le foto di alcuni bambini scattate da Luciano Nadalini alla scuola elementare Iqbal Masih a Lido Adriano. Queste foto fanno parte di un suo progetto del 2000 intitolato Ravenna – immigrazione: un mondo a parte?, che esplora i luoghi di vita, di studio, di lavoro e cultura delle varie comunità immigrate nella provincia romagnola.

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(Foto di Luciano Nadalini)

Tracce migranti è, quindi, un tentativo di analizzare i profondi mutamenti avvenuti negli anni nella società, con particolare riferimento alla scuola e al mondo del lavoro, e con uno sguardo alle nuove generazioni che aspettano di essere inserite pienamente nel tessuto sociale del nostro Paese, in un contesto politico spesso ostile.
Libro e fotografie saranno protagonisti dello spazio espositivo Pr2 al Palazzo Rasponi, e i proventi della vendita del libro andranno a sostenere sia UNHCR sia l’Onlus ravennate che opera in Senegal Amici di Lourène.

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(Foto di Luciano Nadalini)

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07 marzo 2019

Hargeysa. Una fiera del libro tra storia e cultura

Libertà, censura, cittadinanza, memoria collettiva, futuro, viaggio, immaginazione, spazi, leadership, creatività, connettività e saggezza: questi sono i vari temi esplorati dalla Hargeysa International Book Fair (HIBF), l’evento culturale più importante del Corno d’Africa, fondato nel 2008 dal noto scrittore italo-somalo Jama Musse Jama, che parteciperà con un articolo al prossimo numero di Africa e Mediterraneo dedicato all’editoria in Africa. La sede della fiera del libro è ad Hargeysa, in Somaliland, terra natia dello stesso Jama Musse Jama, che da questa terra è partito all’inizio degli anni Novanta a causa della guerra civile scoppiata tra le varie regioni della Somalia; l’edizione di quest’anno si svolgerà dal 20 al 25 luglio 2019.

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L’obiettivo principale di questo evento, organizzato dalla Redsea Cultural Foundation, è promuovere il patrimonio culturale nella regione, esponendo libri locali e di autori esteri, incoraggiando così la diffusione della letteratura somala, in particolare tra le giovani generazioni. Una fiera di libri, dunque, nata dalla passione per la scrittura da parte di Jama Musse Jama, che ora vive in Italia ed è autore di diverse pubblicazioni di etnomatematica, ma anche di carattere politico, dedicate ad esempio alla situazione dei diritti umani nel suo Paese di origine. Infatti, il suo saggio “Gobannimo bilaash maaha” (La libertà non è gratis), pubblicato nel 2007, è stato premiato come miglior libro dell’anno in lingua somala dalla Somaliland Writers Association. Un altro suo libro interessante è “Cittadinanza è partecipazione”, che è stato presentato in Italia al Pisa Book Festival nel 2014, in cui racconta la difficoltà di ottenere la cittadinanza italiana e, con essa, il diritto di voto.
La fiera internazionale di Hargeysa quest’anno si concentra sul tema della convivenza pacifica con nazioni o persone diverse per religione, provenienza, lingua o cultura: un tema considerato importante per il reciproco rispetto e per superare i conflitti sociali intra e inter-statali. Infatti, il Paese ospite di quest’anno a Hargeysa è l’Egitto, che condivide con il Somaliland percorsi storici simili in quanto entrambi sono legati alla religione islamica e hanno vissuto l’occupazione turca e in seguito quella inglese nel secolo scorso, inoltre hanno conosciuto proficui scambi interculturali grazie alla loro posizione geopolitica. Scegliere l’ottica interculturale significa, quindi, assumere la diversità come paradigma di un evento che vuole essere internazionale, e quindi aperto al confronto, al dialogo e al riconoscimento delle differenze.

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13 settembre 2018

La scuola multiculturale: alcuni dati

I Centri Studi IDOS e Confronti mettono a disposizione un’anticipazione sull’importante tema dell’educazione interculturale, che verrà trattato nel Dossier Statistico Immigrazione 2018, la cui presentazione è prevista per il prossimo 25 ottobre in tutte le Regioni e Province Autonome italiane, e di cui Africa e Mediterraneo è focal point regionale. Si riporta in questa sede il comunicato stampa.

“Straniero 1 studente su 10, ma in 3 casi su 5 è nato in Italia: nuove priorità per la scuola multiculturale”
Nell’imminenza della riapertura delle scuole, in Italia le classi saranno ancora spiccatamente multiculturali. Secondo i dati raccolti nel Dossier Statistico Immigrazione 2018, che il Centro Studi e Ricerche IDOS, in partenariato col Centro Studi Confronti, presenterà il prossimo 25 ottobre, sono 826.000 gli iscritti di cittadinanza straniera nell’a.s. 2016/2017, circa un decimo (9,4%) della popolazione scolastica complessiva.
Una incidenza in continua crescita, visto che gli alunni figli di italiani vanno sempre più diminuendo (-96.300 in un anno, -1,2%) per il costante calo delle nascite, mentre quelli nati da genitori stranieri vengono gradualmente aumentando (+11.200 e +1,4%), grazie alla maggiore giovinezza e fecondità della popolazione di origine immigrata. Basti osservare che tra gli italiani gli ultra65enni sono ormai 1 ogni 4 residenti (24,3%), tra gli stranieri invece, che per il 37,6% hanno meno di 30 anni, sono solo 1 ogni 25 (4,0%).
Tuttavia, anche tra gli stranieri le nascite sono in progressivo calo e, se fino ad oggi la presenza di figli di immigrati aveva compensato la decrescita della popolazione scolastica nazionale, attualmente gli alunni stranieri non bilanciano più la perdita in atto e il numero complessivo di iscritti è calato in un solo anno di 85.000 unità (-1,0%).
Più della metà degli alunni stranieri (56,6%) frequenta la scuola dell’infanzia (20,0%) e quella primaria (36,6%), dove sono quasi l’11% di tutti gli scolari, mentre meno di un quarto (23,2%) le scuole superiori, dove rappresentano solo il 7,1% di tutti gli studenti e, anche per le maggiori difficoltà di inserimento e rendimento scolastico, scelgono con più frequenza istituti professionali (orientandosi così a un immediato inserimento nel lavoro piuttosto che alla prosecuzione degli studi, a scapito della futura mobilità).
Sebbene tra loro siano rappresentate 190 nazionalità, si tratta, per oltre la metà dei casi, di giovani romeni (158.000), albanesi (112.000), marocchini (102.000) e cinesi (49.500). D’altra parte, le regioni in cui è più alta la loro incidenza nelle scuole sono nell’ordine: Emilia Romagna (15,8%), Lombardia (14,7%), Umbria (13,8%), Toscana (13,4%) e Piemonte (13,0%).
Ma il dato più importante è la quota sempre più ampia di alunni stranieri che sono nati in Italia, le cosiddette “seconde generazioni”, che spesso riconoscono l’italiano come propria lingua madre, vivono con e come i coetanei italiani e si sentono tali a tutti gli effetti, condividendo con loro ogni cosa eccetto la cittadinanza (e ciò che essa comporta, in termini di riconoscimento giuridico e di diritti). Se nell’a.s. 2007/2008 erano appena un terzo (34,7%) di tutti gli alunni stranieri, nell’a.s. 2016/2017 sono più di mezzo milione (503.000), i tre quinti (60,9%) del totale. Rispetto all’a.s. precedente, costoro sono aumentati di ben il 12,9% (+57.600).
Si tratta – osserva Luca Di Sciullo, presidente di IDOS – di identità non riconosciute dalla legge e spesso scisse tra due mondi culturali di riferimento, ora in conflitto con le famiglie immigrate d’origine, quando ne rifiutano il modello identitario per abbracciare quello italiano, ora con la società italiana, quando accade il contrario”. “Con l’aggravante – continua il presidente di IDOS – che nel primo caso essi rischiano un doppio conflitto: oltre che con la famiglia d’origine, perché si sentono italiani, anche con la società ospitante, se, al momento di inserirsi nel mondo del lavoro o nei contesti di partecipazione sociale, verranno comunque discriminati perché formalmente stranieri”.
Se fino a diversi anni fa – dice Di Sciullo – la priorità della scuola in Italia era di mandare a regime una didattica meno incentrata sulla sola storia, geografia e cultura italiana e più aperta alla conoscenza dei paesi e delle tradizioni del resto del mondo, in considerazione delle provenienze e dei portati culturali degli studenti stranieri, oggi che i tre quinti di essi sono nati e cresciuti in Italia senza esserne cittadini, la priorità è diventata la necessità di affrontare e gestire il loro conflitto d’identità, perché esso non finisca per esplodere, quando, usciti dalle aule, questi giovani si inseriranno nella società”.
Un compito – conclude – in cui la scuola non può essere lasciata da sola, ma che richiede la collaborazione di tutte le altre agenzie formative (famiglie, associazioni, gruppi sportivi ecc.) che una volta formavano la cosiddetta comunità educante”.

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 Per maggiori informazioni: www.dossierimmigrazione.it

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13 giugno 2018

“Racconti di passaggio. Appunti, storie e immagini”. Il laboratorio di libera espressione artistica di Riola

Incontrarsi, raccontare e creare per ripensare la vita di comunità attraverso l’arte. Con questi propositi Juliane Wedell, operatrice dell’accoglienza e esperta di arte sociale, ha condotto il laboratorio “Racconti di passaggio. Appunti, storie e immagini”. Il laboratorio è stato inaugurato il 9 marzo 2018: il programma prevedeva un incontro a settimana, nella sede della Parrocchia di Santa Maria Assunta di Riola, frazione di Grizzana Morandi (Bo).

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Partendo dalla positiva esperienza del laboratorio artistico Closlieu, conclusosi l’anno passato a Riola, anche quest’anno, Lai-momo soc. coop., in collaborazione con Africa e Mediterraneo, ha dato vita alla seconda edizione del laboratorio, che in questo caso era rivolto non solo ai richiedenti asilo ma anche ai cittadini del territorio. La Parrocchia di Santa Maria Assunta di Riola si è proposta di offrire gli spazi per la realizzazione degli incontri, con la speranza che il laboratorio possa diventare uno spazio permanente di interazione tra i cittadini e gli ospiti richiedenti asilo accolti nei centri situati nei Comuni dell’Unione dei Comuni dell’ Appennino Bolognese.
L’attività che si è svolta a Riola nasce soprattutto con l’obiettivo di creare legami e incentivare il dialogo e l’ascolto tra i partecipanti, in un percorso di conoscenza reciproca e di condivisione libero da giudizi e da preoccupazioni interiori, almeno per qualche ora.

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I partecipanti, immergendosi nella dimensione positiva del laboratorio, guidati dall’animatrice, hanno provato a raccontarsi e ad ascoltare, per poi reinterpretare le proprie emozioni attraverso la libera espressione artistica. Il laboratorio è stato seguito da un gruppo di circa dieci partecipanti, ospiti provenienti dal Pakistan e da altri Paesi africani, non solo del CAS (Centro di Accoglienza Straordinario) di Riola, ma anche provenienti da altre strutture di accoglienza dislocate nei Comuni del Distretto Unione Comuni Appennino Bolognese (nello specifico: Vergato, Castel d’Aiano, Granaglione, Lizzano) e da alcuni cittadini dei Comuni limitrofi. La sfida iniziale di aprire il laboratorio anche ai cittadini di Riola è stata accolta positivamente, nonostante le difficoltà legate al coinvolgimento dei cittadini del territorio: dagli impegni di ognuno dei partecipanti, alla difficoltà di pensare a un laboratorio artistico come ad una tra le priorità.

Le attività si sono svolte principalmente all’aperto, proprio nella piazza della Parrocchia di Riola, attirando così la curiosità dei passanti. Al centro della piazza Juliane ha posto un tavolo lungo e stretto intorno al quale i partecipanti sono stati chiamati a condividere le proprie esperienze. Al centro del tavolo i colori, i fogli, i pennarelli e i libri illustrati dai quali trarre ispirazione. Tra questi, il capolavoro dell’illustratore australiano Shaun Tan, lungo racconto senza parole di una storia di migrazione, di un’umanità senza tempo. Dopo le riflessioni ognuno si è concentrato sul disegno: in totale libertà si poteva pensare al soggetto da rappresentare, ascoltando i propri tempi, utilizzando un colore per volta e dipingendo liberi da ogni pensiero, ma con impegno e coscienza di sé.
L’ultimo incontro è stato incentrato sulla scoperta di alcuni dei luoghi più affascinanti offerti dal territorio ospitante, così i partecipanti hanno visitato le cascate di Labante. A conclusione dell’escursione c’è stato un momento di incontro e dialogo con alcuni abitanti del luogo che hanno condiviso con i partecipanti la loro passione per la montagna per poi dedicarsi insieme alla reinterpretazione artistica.Per quest’anno il percorso si è concluso, speriamo di poter continuare questa esperienza così arricchente per tutte le parti in gioco e poter consolidare il laboratorio nel tempo.

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01 settembre 2017

La World Press Photo in Sudafrica

Per la prima volta in oltre venti anni la provincia del Sudafrica KwaZulu-Natal ha il privilegio di vedere la World Press Photo (WPPh), il più grande concorso di fotogiornalismo professionale al mondo. Le fotografie vincitrici del concorso sono esposte in una mostra itinerante, la World Press Photo Exhibition che viaggia in 100 città in 45 paesi e viene visitata da un pubblico di più quattro milioni di persone.

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Questa mostra sarà ospitata presso l’Hilton Arts Festival, l’evento artistico più importante della provincia sudafricana, che si svolgerà in parallelo al DocuFest Afric, il festival della narrazione visiva dal 15 al 17 settembre 2017. Questa mescolanza di eventi artistici, che portano il meglio della fotografia e del racconto visivo sudafricano sotto la direttiva di Africa Media Online, sono un’opportunità per far conoscere a livello internazionale la storia del continente. Al Docufest Africa, ad esempio, verrà presentato il lavoro di Jodi Bieber, l’unica fotografa sudafricana che ha vinto il premio World Press Photo dell’anno e che ha illustrato tramite la fotografia “Bibi Aisha” la situazione tragica di una giovane donna afgana con il naso e le orecchie tagliate dalla famiglia del marito. Narrazioni, come queste, servono a offrire immagini ad alto impatto emotivo e conoscitivo per agire di conseguenza nel presente su ogni piano sociale, politico ed etico. Così anche la mostra World Press Photo Exhibition 2017 promuoverà un’alfabetizzazione visiva più urgente che mai per aiutare i giornalisti, i narratori africani e il loro pubblico a capire e a rispondere alle trasformazioni del continente nel rispetto della creatività e della libera espressione.

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Per maggiori informazioni: http://bit.ly/2xq0mWB

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