23 agosto 2024

Samwel Japhet, dall’infanzia nelle strade della Tanzania alla danza

«A 6-7 anni ho lasciato la mia casa e ho vissuto come bambino di strada in Tanzania per 10 anni. Dico ‘in Tanzania’ perché non sono stato in un solo luogo, ho girato in varie città

Samwel Japhet è un giovane performer tanzano che sta velocemente costruendo una carriera a livello nazionale e internazionale, ma ha iniziato da una condizione estremamente svantaggiata. Un’infanzia e un’adolescenza durissime e pericolose, che lui ha saputo trasformare nell’esperienza fondamentale per il nutrimento della sua ispirazione. L’ho incontrato a Dar es Salaam.

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Samwel Japhet, 2024

S.F. Perché hai lasciato la tua famiglia?
S.J. Sono fuggito perché venivo picchiato molto. E così sono finito in strada, a vivere con altri bambini, era pericoloso e difficile ma mi sentivo comunque meglio lì che nella situazione di abuso che c’era a casa. Dopo essermi spostato in vari luoghi, nel 2009 sono arrivato a Dar es Salaam e nel 2010 ho incontrato Makini, un’organizzazione non profit che aiutava i bambini di strada: ci raccoglievano, ci facevano giocare, nuotare e ci offrivano anche una terapia per superare i traumi della vita in strada. Dopo un po’ hanno cominciato a portarci in vari spazi pubblici, tra cui centri culturali e artistici, così ci hanno introdotto all’arte, di cui noi non sapevamo niente. Hanno organizzato formazioni nell’arte performativa: workshop di teatro, musica, danza, e abbiamo fatto performances comunitarie.

 S.F. In quel periodo dove vivevi?
S.J. Sempre in strada. Loro ci insegnavano a vivere insieme e ad aiutarci a vicenda mentre vivevamo nelle strade. Makini era uno spazio per riflettere e metterci in una relazione migliore tra noi. Era una vita folle, quella in strada, ma è stata anche l’inizio della mia carriera artistica e continua a influenzare anche oggi il mio lavoro. Quel periodo ha formato le mie aspirazioni e prospettive, ho imparato che la vita, anche se fragile, è un viaggio in costante evoluzione in cui abbiamo il potere di formare nuove realità nonostante le difficoltà che affrontiamo, personalmente e nella società. E io ho deciso di farlo attraverso l’arte.

Nel 2013 ho fatto un’audizione per entrare nel programma triennale della MUDA Africa Dance School in Tanzania e sono stato ammesso. Sono stato formato professionalmente dal 2014 al 2016 e mi sono diplomato. In questo periodo ho avuto il privilegio di collaborare con artisti internazionali, tra cui Nora Chipaumire, una coreografa e performer nata in Zimbabwe e basata a Brooklyn, che ha sfidato gli stereotipi dell’Africa, del corpo nero danzante, e mi ha introdotto a un nuovo modo di pensare, a scoprire la mia voce artistica personale, a definire un mio primo manifesto artistico. È stato un momento fondamentale, che mi ha indicato una prospettiva e acceso una grande ambizione dentro di me a perseguire una carriera come danzatore e coreografo. E mentre entravo più profondamente nel mondo della danza, diventavo più curioso su quanto si poteva fare con la danza e le varie forme artistiche, allargando i miei interessi.
Intanto, nel 2015, con Tadhi Alawi ho co-fondato una compagnia di danza, Nantea, che ora è la mia compagnia.

S.F. Qual è la vostra attività come gruppo?
S.J. Facciamo progetti comunitari, collaborazioni interculturali, produzioni, tournée. Abbiamo prodotto lo spettacolo “YIN-YANG“, che stiamo portando in tour fuori dalla Tanzania.
Usiamo la danza come un’espressione artistica per raccontare storie, riflettere su temi sociali e sull’esperienza umana, sul nostro tempo e sulla politica. I temi che esploriamo sono gli squilibri sociali, la dignità, il conflitto, memoria e uguaglianza, creando spazi in cui il pubblico può riflettere e immaginare futuri alternativi. Vogliamo sviluppare la scena della danza tanzaniana e ispirare i giovani a diventare ambasciatori di crescita e cambiamento sociale, realizzare un lavoro di alta qualità e costruire una cultura in cui l’arte abbia un valore proprio.

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Samwel Japhet (secondo da destra) con altri bambini di strada

S.F. Quanti anni hai?
S.J. Non lo so! (sorride) Penso di avere 25-26-27 anni.

S.F. Hai ripreso i contatti con la tua famiglia? Sanno del tuo percorso?
S.J. Non vedo ragioni per ricreare una relazione. Loro non hanno nessuna idea della mia vita di adesso. Quando stavo in strada, cambiavo sempre nome per non essere ritrovato, anche se non credo che mi cercassero. Comunque non avevo documenti, e mi sono creato un nome e un cognome scelti da me. Poi ho avuto i documenti.

S.F. Hai fratelli, sorelle?
S.J. Ricordo che avevo una sorella, ma lei stava spesso via con mia madre. Mia madre era spesso in viaggio, credo per lavoro, e se la portava con sé. Comunque ricordo bene di non avere avuto una stretta relazione con mia madre.

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Samwel Japhet con altri bambini di strada

S.F. Riesci a vivere autonomamente?

S.J. Sì, vivo con l’arte, la danza, l’organizzazione di performance. Con la compagnia Nantea, io e Tadhi facciamo progetti, ed è il nostro lavoro. Siamo stati in vari festival e teatri nei Paesi Bassi, Corea del Sud, Israele, Sudafrica, Germania, Mozambico, Portogallo, Etiopia. Ad esempio nel 2022 abbiamo voluto invitare artisti da altri paesi africani e dall’Europa per lavorare insieme, e abbiamo fatto un progetto finanziato dall’Unione europea, per due anni. Si intitolava UMOJA Residency e abbiamo riunito nove artisti e artiste di varie discipline da Francia, Kenya, Lettonia, Repubblica Democratica del Congo, Estonia, Spagna e Tanzania per una residenza di cinque settimane a Dar es Salaam. Io ero co-manager del progetto.

S.F. È stato complicato con la burocrazia europea?
S.J. Un po’ difficile, sì, soprattutto perché non ho una educazione.

S.F. Sei andato a scuola? Come hai fatto a imparare a leggere e a scrivere? E l’inglese?
S.J. Quando ho lasciato la mia casa avevo già un’idea di come scrivere in swahili, ho ricordi di essere andato a scuola. Partendo da questa base, e stando in strada, leggevo qua e là e insomma in qualche modo ho imparato. Così per l’inglese. Anzi, mi piace scrivere, preferisco scrivere che parlare.

S.F. Parlami del lavoro con la tua compagnia di danza.
S.J. Con Nantea abbiamo iniziato a fare spettacoli nel 2016, la prima performance è stata in Rwanda. Organizziamo una serata biennale di danza contemporanea, con spettacoli di danza tanzaniani e dell’Africa orientale. La compagnia gestisce anche “Nje Ndani”, un progetto di sensibilizzazione attraverso la danza strutturato per accrescere conoscenze e competenze di danzatori emergenti tanzani attraverso workshops, seminari, e dialoghi aperti sull’espressione artistica e l’impresa creativa. Ora l’abbiamo estesa invitando produttori da Uganda, Congo, Zimbabwe, e poi dalla Germania.

S.F. Hai detto che attraverso la danza vuoi narrare storie. Come lo fai?
S.J. La nostra danza non è solo espressione artistica, ma anche riflessione su questioni sociali, sull’esperienza umana e lo facciamo usando testo, musica, movimento, linguaggio verbale, costumi… Combiniamo tutte queste cose, e così narriamo la storia. Di solito collaboriamo con altre persone, con designer dei costumi e musicisti che registrano musiche apposta per gli spettacoli.
Normalmente dopo ogni performance dialogo con il pubblico, non con domande e risposte, ma in una sessione di riflessione, per far loro esprimere come hanno vissuto la performance, come si sono sentiti.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Avete avuto problemi con la censura?
S.J. Sì, perché in Tanzania non è permesso stare sul palcoscenico con il corpo praticamente nudo. Ci hanno detto che andavamo contro la cultura tanzaniana. Bisogna essere molto attenti.

S.F. Dovete praticare un’auto-censura.
S.J. Sì, è proprio così, ci auto censuriamo!

S.F. Quindi come artista devi affrontare molte sfide?
S.J. Sì, certo, la precarietà del mondo dell’arte, le limitazioni alla libertà di espressione, i sistemi discriminatori, il problema dei visti e l’instabilità finanziaria hanno avuto un impatto sul mio percorso. In Tanzania, ad esempio, impegnarsi in attività artistiche richiede la registrazione presso il National Arts Council (BASATA), che comporta quote iniziali e annuali, oltre ai costi per i viaggi internazionali correlati all’arte. Questo ostacolo burocratico aggiunge complessità al già difficile processo di espressione artistica in Tanzania. Quando noi artisti usciamo dalla Tanzania dobbiamo avere un permesso di viaggio che costa 15 euro. Può sembrare niente, ma so di molti che non hanno potuto viaggiare perché non avevano il denaro. E poi, perché questa tassa solo per gli artisti? E a volte ci sono stati gruppi che hanno perso il lavoro per questioni burocratiche.

S.F. E ovviamente la mancanza di libertà espressiva.
S.J. Sì, ma noi crediamo comunque di poter fare attivismo attraverso l’arte: denunciare, fare riflettere su problemi come le limitazioni nella società, o il razzismo. Ad esempio, il mio collega Tadhi ha avuto l’esperienza a Zanzibar di essere fermato al suo arrivo dalla polizia, perché era con la moglie tedesca, bianca. La nostra performance “YIN-YANG” parla anche di questo, è nata dalla sua esperienza personale di aver subito razzismo interno (cioè discriminazione tra persone che condividono la stessa cultura), di cui nessuno parla. A lui è successo tante volte a Zanzibar, un luogo rinomato per la sua bellezza ma dove lui non si è mai sentito a casa perché, ogni volta che ha visitato l’isola con amici bianchi, ha sempre assistito a privilegi razziali. È stato fermato tante volte dalla polizia e interrogato su perché “andava in giro con persone bianche senza permesso”, mentre la polizia non ha mai chiesto ai suoi amici bianchi perché andavano in giro con lui. Questa esperienza mostra che il doppio standard basato sulla razza è ancora profondamente radicato nelle strutture della società, anche tra persone che condividono lo stesso background. Questo fastidioso doppio standard ha fatto riflettere Tadhi sul suo senso di appartenenza e sulla libertà nel suo stesso paese e ha cominciato a discuterne, e sono uscite diverse testimonianze di persone che avevano avuto la stessa esperienza. Queste conversazioni e questa esperienza sono state le basi per la creazione della performance “YIN-YANG”.

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Nantea Dance Company, 2021, ph Jimmy Mathias

S.F. Un argomento di chi è favorevole alla censura è che serve a proteggere la cultura originaria del paese da influenze che vengono dall’esterno.
S.J. Io penso che anche prima che le persone facessero campagne per i diritti esistevano in Tanzania determinati orientamenti. Però bisogna seguire delle regole: il National Council ha prodotto un vademecum con una check list sulle cose da controllare prima di proporre un’opera. Io comunque voglio continuare a raccontare storie: sono consapevole di avere avuto una grande fortuna, mentre ci sono tante persone come me che non possono raccontare le loro storie.

Samwel Japhet ha vinto nel 2021 il Seed Award del Prince Claus Fund for Culture and Development in Olanda. Ha ottenuto una borsa di studio per essere formato, nel 2024-2026, nel Laboratory for Global Performance and Politics della Georgetown University, Washington D.C. Comincerà in settembre le lezioni online e in giugno 2025 sarà in Umbria per la prima sessione in presenza presso laMaMa Umbria International.

Mentre mi racconta di come ha vissuto da bambino, di come ha imparato l’inglese in strada, di come si è costruito una carriera artistica, mi colpisce la sua pacatezza, la concretezza e persino auto-ironia del suo discorso e, devo dirlo, un’impressione di totale equilibrio psicologico. Non dà l’idea di essere una persona che nasconde una sofferenza interiore, ma piuttosto di essere molto capace e attivo nel perseguire il suo lavoro culturale e nel tessere relazioni. Poche ore dopo il nostro incontro mi aveva già mandato una e-mail con il curriculum, un suo statement e alcune foto. Insomma, è sicuramente un giovane artista con risorse umane e caratteriali fuori dal comune, che ha saputo permettere alle relazioni, alle occasioni fortunate e all’arte di curare i suoi traumi.

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03 luglio 2023

Identità africane a confronto: il Canto di Lawino e il Canto di Ocol al Teatro No’hma di Milano

di Francesca Romana Paci

Il 10 e 11 maggio 2023 a Milano è andato in scena al Teatro No’hma – Spazio Teatro Teresa Pomodoro – lo spettacolo Land of Poetry, una produzione dello Twangale Cultural Centre della città di Ndola in Zambia. La regia, il copione, la selezione di brani musicali che accompagnano la pièce sono di Martin Ilunga Chishimba, nato nel 1988, attore, cantautore, scenografo, coreografo, studioso e fondatore dello stesso Twangale Cultural Centre. Chishimba è conosciuto in ambienti italiani per aver studiato alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano. Livia Pomodoro, presidente e direttrice operativa del No’hma, che lo aveva già ospitato nel 2019 con la pièce Broods of Any, dedicata alla grande piaga dei bambini strada, lo ha nuovamente invitato per la stagione 2022-2023.

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La pièce Land of Poetry ha due ipotesti: Song of Lawino e Song of Ocol, due poemetti narrativi, collegati fra loro, dello scrittore ugandese Okot p’Bitek (1931-1982), romanziere, poeta, musicista, studioso, accademico, e, non meno significativamente, atleta, danzatore, suonatore di tamburo e cantore narrativo tradizionale. I poemetti sono stati originariamente scritti in lingua acholi – una lingua Iwo dell’Uganda, per alcuni un dialetto – e poi tradotti in inglese dal loro stesso autore e pubblicati, in inglese, in Kenya, Song of Lawino nel 1966 e Song of Ocol nel 1970, dalla East Africa Publishing House di Nairobi. Ora se ne trovano edizioni congiunte con il titolo Song of Lawino & Song of Ocol. Si ricordano l’edizione di Heinemann del 1986, e quella del East African Educational Publisher del 2013, in Kenya. Entrambe le Song sono state pubblicate anche in acholi.

Okot p’Bitek, nato nel 1931, vive in pieno le prime indipendenze africane e i decenni posteriori, con le difficoltà, gli entusiasmi, le contraddizioni legate alla grande Africa, e, in realtà, già allora, inerenti a una pre-globalizzazione del mondo – non solo economica, anche se condizionata da rapporti economici, ma anche pesantemente culturale, innescata dal Colonialismo stesso e accresciuta dalle due Guerre Mondiali. Okot p’Bitek nasce a Gulu in Uganda, figlio di un padre insegnante scolastico e di una madre nota come storyteller, danzatrice e cantante tradizionale. Completa le scuole superiori in Uganda, facendosi già notare per l’ampia gamma della sua creatività artistica, e poi persegue studi universitari in UK, nelle università di Bristol, Aberystwyth-Wales, e Oxford. Nelle sue opere si legge quanto i suoi incontri con la cultura europea siano stati profondi e nello stesso tempo critici, soprattutto per tutto quello che riguarda il punto di osservazione degli studiosi occidentali dell’Africa, ma anche, in posizione speculare, il punto di vista dei personaggi creati dagli scrittori africani stessi.

Song of Lawino e Song of Ocol sono poemetti relativamente lunghi, raccontati ciascuno integralmente in prima persona; da una giovane donna, Lawino, il primo, da un giovane uomo, Ocol, il secondo. Di fatto sono due monologhi drammatici con qualità intensamente teatrali. Lawino e Ocol sono moglie e marito in un contesto dove la poligamia è consueta. Lawino è una prima moglie. Ocol ha da poco preso una seconda moglie, Clementine, ma è bene dire subito che Lawino non lamenta la presenza di un’altra donna nella vita di suo marito, quanto il confronto con l’altra, colta e occidentalizzata – «Clementine […] aspires / To look like a white woman»; un confronto che Ocol le fa pesare e le fa vivere come sfavorevole a lei stessa. Lawino non accetta senza reagire quello che considera una ingiustizia culturale prima ancora che amorosa e da voce al suo lamento. Le vicende sono ambientate in un luogo preciso dell’Uganda e in un tempo dato, ovvero negli anni di poco posteriori alle prime indipendenze di paesi africani. Lawino accusa: «He [Ocol] abuses me in English / And he is so arrogant […] My husband abuses me together / With my parents / He says terrible things about my mother /And I am ashamed. […] He says we are all Kaffirs / We do not know the ways of God / We sit in deep darkness / […] He says Black People are Primitive […]».

Okot p’Bitek crea con Lawino un modello femminile intensamente locale e immerso in una situazione di rifiuto di ogni cultura esterna. Con Ocol, di contro e simmetricamente, crea un giovane uomo affascinato dalle culture esterne. Entrambi i personaggi sono strumentali alla ricca, stratificata, contrastiva poetica culturale di Okot p’Bitek (contrastiva non contraddittoria), e, come tali, presentano aspetti finzionalmente caricati a scopo di ricerca.

Song of Lawino è composto di tredici sezioni, che sono un vero e proprio catalogo di elementi culturali del paese africano dove è nata – a suo modo Lawino è una accurata antropologa. Song of Ocol è più breve, ma è similmente un catalogo, nel quale Ocol risponde a Lawino, sezione per sezione. Ocol evoca Senghor, Marx, Mozart, la dea Athena con diretto ardore giovanile. Ma non ci si deve far ingannare: non c’è nulla di facile e nulla di ingenuo nei poemetti, anzi, c’è una stratificazione di livelli che richiede molta attenzione.

Okot p’Bitek, che ha una grande cultura sia africana sia occidentale, ha scelto, come studioso di focalizzare l’attenzione sul corrosivo, spesso ultra-enfatizzato problema coloniale e post-coloniale delle identità culturali, della loro permanenza, dei loro confini, della loro stessa legittimità. Un fenomeno in realtà generato da qualunque forma di colonialismo e pseudo-colonialismo sulla terra, intendendo con “colonialismo” l’incontro e il conseguente rapporto chiuso e/o aperto, univoco e/o biunivoco con l’altro, gli altri – problemi mai risolti e tuttora ben vivi nel mondo contemporaneo. In realtà una situazione che si presenta sempre in varia misura nei rapporti “noi” e gli “altri”. La risposta di Ocol alle argomentazioni di Lawino non chiude la questione, anzi la complica, e forse indebolisce gli obiettivi di Okot p’Bitek. Une lettura completa dei due testi si può ascoltare in rete all’indirizzo https://youtu.be/p0JidvB33vM.

Martin Chishimba, creando la sua versione teatrale dei poemetti ha fatto una scelta intelligente, ma certamente non facile. Racconta di aver incontrato Song of Lawino & Song of Ocol nella edizione Heinemann del 1986, mentre frequentava la High School nella città di Ndola nella provincia del Copperbelt in Zambia. Quando nel 2016 fonda il Twangale Cultural Centre, cercando testi che rappresentino storicamente aspetti della cultura africana, si ricorda di Okot p’Bitek, e scrive un arrangiamento teatrale delle due Song – scrive in inglese, che è la lingua ufficiale dello Zambia. È interessante notare che “twangale” in lingua bemba (una delle lingue dello Zambia) vuol dire “let us play”, e che in inglese il verbo “play” copre i significati di “giocare”, “suonare” e “recitare”. Data la lunghezza delle due composizioni, Chishimba spiega di aver limitato la sua versione ad alcune delle sezioni e nello stesso tempo di aver introdotto alcune aggiunte. Prendendo l’avvio dalla scenografia implicita del lamento di Lawino, che nel poemetto evidentemente si rivolge a un pubblico per averne un aiuto, Chishimba crea una sua propria struttura teatrale: Lawino nella versione Twangale parla davanti agli anziani del suo popolo in una assemblea della comunità riunita per ascoltare le sue ragioni e quelle del marito. Nel cast, quindi, oltre Lawino e Ocol, entra il popolo, rappresentato dai quattro musicisti, che suonano, recitano e agiscono in coreografie organizzate insieme agli altri attori; entra un Wiseman, che rappresenta gli anziani; entra la madre di Lawino, che appoggia la figlia, e rappresenta il valore permanente della tradizione; non entra, invece la seconda moglie occidentalizzata di Ocol, Clementine, la cui caratterizzazione è affidata totalmente alle parole di Lawino.

Attori e attrici sono tutti molto bravi sia nella recitazione e movimenti scenici sia nelle loro competenze musicali specifiche. I quattro musicisti sono: Charles Kabwita, percussioni; Derick Chileshe, tastiera; Kombe Mutale, basso; Ng’andu Mweetwa, chitarra. Lawino è Karen Mbolela; la madre è Chanda Henriettah Pule; Ocol è Martin Chishimba stesso; il Wiseman, il “Saggio”, è Amos Chipasha, compositore, cantante, molto seguito in Zambia come T-Low (Terror-League of war; scollegato al rapper tedesco omonimo), interprete hip-hop, rapper, e infine attore. Il personaggio del Wiseman è fondamentale perché assomma in sé funzioni importanti. Ascolta, non giudica, non condanna, quasi come può fare uno psicanalista; sembra avere grande conoscenza sovra-locale e insieme un completo rispetto per il locale; ama la conoscenza; è un negoziatore di pace, suggerisce la riconciliazione, valuta la vita in sé, donde il suo ripetuto refrain «life is good». Lo spettatore può persino congetturare che il Wiseman sia anche una rappresentazione di Okot p’Bitek.

Martin Chishimba dichiara apertamente di aver dato maggiore attenzione alla storia di Lawino e Ocol che alla forma metrica dei monologhi, ma di essere stato colpito dal ritmo della lingua delle Song, che gli è sembrato affine al bit del rap. Il Wiseman e la musica sono le innovazioni più evidenti rispetto ai monologhi di Okot p’Bitek, anche se, letti con attenzione a suono e ritmo, i testi in inglese di Okot p’Bitek si prestano effettivamente molto bene a interpretazioni rap – si deve ricordare che sono stati scritti negli anni Sessanta, prima, sia pure di poco, dell’esplosione del rap. La colonna sonora del play di Martin Chishimba è costituita da canzoni contemporanee, ispirate alla musica tradizionale dello Zambia, intrecciate a influenze jazz, ska, reggae, rock, e non solo.

Le canzoni sono composte da Amos Chipasha e da Martin Chishimba stesso. A un certo punto irrompe un breve brano della Eine kleine Nachtmusik, eseguito alla tastiera da Derich Chileshe. La citazione è dovuta perché la Serenata K525 di Mozart compare anche in Song of Ocol. Per inciso: Okot p’Bitek ha una grande conoscenza della musica classica occidentale, e in particolare di Mozart, dal cui Flauto magico, che ha studiato, ha tratto ispirazione per alcune sue creazioni.

La musica non solo accompagna, ma sembra provocare i movimenti coreografici degli attori. Un aspetto interessante è l’abbigliamento: i due personaggi femminili, Lawino e sue madre, indossano il tradizionale chitenge, un grande colorato rettangolo di cotone che avvolge la figura, analogo a molti altri  femminili africani; Ocol e i suonatori/popolo portano abiti non connotati, universalmente contemporanei e informali; il Wiseman, interpretato da un alto e smilzo Amos Chipasha, è vestito di bianco, con un insieme di pantaloni, bretelle, camicia e cravatta che ricorda un neo-dandy degli anni Trenta in UK e in US, e che trasmette qualcosa di permanente fuori del tempo – in una iconografia cinematografica statunitense piuttosto nota, potrebbe rappresentare un angelo; e potrebbe anche far pensare a un surreale intervento di p’Bitek. Land of Poetry si può vedere integralmente in rete al link https://www.youtube.com/watch?v=_mtBdg6LEl8.

In Okot p’Bitek e in Martin Chishimba sono le donne, fatte salve le gradazioni ironiche dei due autori, a dare corpo alla tradizione, mentre gli uomini sono favorevoli alla innovazione – il Wiseman suggerisce equilibrio. Impossibile non ricordare, però, che in scrittrici come Mariama Bâ, Ama Ata Aidoo, Tsitsi Dangarembga, Yvonne Vera sono le donne ad aspirare alla innovazione e gli uomini a resistere al cambiamento.

Nel retroterra di Okot p’Bitek, e di conseguenza in quello di Martin Chishimba, ci sono testi importanti per lo studio dei rapporti dell’Africa con l’Occidente. Non potendo ricordarli tutti, ci si limita a qualcuno che sembra significativo. Uno dei più precoci è il romanzo Mister Johnson (1939) dell’irlandese Joyce Cary, dove un giovane nigeriano è letteralmente innamorato della cultura inglese, che cerca di imitare il più possibile; il romanzo scava e mostra aspetti razzisti sia consci sia inconsci, e la storia finisce tragicamente. Dopo la Prima Guerra Mondiale arriva l’intensità di Frantz Fanon, con Peau noir, masques blancs (1952), opera che nessuno scrittore africano potrà mai permettersi di ignorare e/o dimenticare – certamente non la ignora Okot p’Bitek. Ci si concede di menzionare anche Nini, mulâtresse du Senegal (1954) di Abdoulaye Sadji, un romanzo discusso dallo stesso Fanon in Peau noir, masques blancs con attenzione antropologica, sociale, e, data la sua professione, psichiatrica.

Non meno importante l’influenza di Chinua Achebe, vero capostipite della narrativa africana. A partire da Things Fall Apart (1958-1959), Achebe affronta ripetutamente il problema dell’incontro, scontro, e confronto tra le culture africane e le culture occidentali, tanto da costituire un modello inevitabile e permanente nel tempo. Lo ha subito anche l’ivoriano Ahmadou Kourouma, sia nei romanzi sia nei suoi straordinari testi per bambini, dove descrive e spiega l’organizzazione sociale – cacciatori, griot, fabbri, e altro – di una comunità africana nel suo paese e in stati limitrofi. 

Pur con tutte le aggiunte e complementi teatrali, nel remake di Martin Chishimba, come era in Okot p’Bitek, il centro focale è il confronto tra culture e la ricerca di come rispettarle entrambe in una realtà inevitabilmente plurale e contraddittoria da quando il Colonialismo le ha irreversibilmente sommate e per molti aspetti fuse. 

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07 marzo 2016

L’Ethical Fashion Initiative sul palcoscenico

Andrew Ondrejcak - ELIJAH GREEN Costumes

Dopo il Pitti Show a Firenze a gennaio 2016, in cui alcuni richiedenti asilo ospiti nei centri di accoglienza della città metropolitana di Bologna avevano sfilato assieme ai modelli per presentare le creazioni di 4 designer africani, l’ITC Ethical Fashion Initiative continua a valorizzare i nuovi talenti della moda del continente africano: ha infatti stretto una collaborazione con lo scrittore, regista e designer statunitense Andrew Ondrejcack per la realizzazione dei costumi per la sua ultima pièce teatrale, intitolata EJIJAH GREEN.

Andrew Ondrejcack e l’Ethical Fashion Initiative si sono recati ad Haiti, in Burkina Faso e in Mali per incontrare gli artigiani che hanno realizzato costumi, gioielli e scenografia per lo spettacolo. In Burkina Faso, Andrew Ondrejcack ha scoperto una fabbrica di tessuti fatti a mano da donne; in Mali ha ricevuto un corso nell’arte del bogolan dal maestro artigiano Boubacar Doumbia. Ad Haiti invece, il regista ha avuto l’opportunità di fare conoscenza con una grande varietà di artigiani per procurarsi cappelli, accessori di carta pesta, tamburi in metallo fatti su misura, e molte altre cose ancora. ITC Ethical Fashion Initiative ha anche fornito articoli di gioielleria tradizionale kenyana Masai e di artigianato kenyano.

ELIJAH GREEN sarà rappresentato per la prima volta il 10 marzo presso The Kitchen, a New York.

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02 febbraio 2016

Artisti sotto pressione – Il Nigeriano Jelili Atiku arrestato e rilasciato

Jelili Atiku, photo ©Quentin Cornet

Jelili Atiku, photo ©Quentin Cornet

L’artista nigeriano Jelili Atiku è stato arrestato a Lagos il 18 gennaio 2016 insieme ad altri performers e membri del suo pubblico dopo aver recitato una delle sue ultime creazioni, “Aragamago Will Rid This Land Off Terrorism”, vicino a casa sua a Ejigbo, Lagos, quattro giorni prima. Il capo tradizionale della città, Oba Morufu Ojoola, si è sentito direttamente criticato dalla performance e ha accusato i performers di diffondere informazioni che potrebbero favorire un’opinione pubblica negativa sul suo controllo delle risorse della comunità.

Le opere di Jelili Atiku, non convenzionali e provocatorie, denunciano la violazione dei diritti umani in Nigeria e non risparmiano le critiche contro la classe dirigente nigeriana e Boko Haram. Jelili Atiku è il fondatore della prima Biennale Africana della Performance, ed è stato premiato dalla Fondazione Prince Claus lo scorso dicembre. Mentre la performance è spesso considerata come un’arte riservata a un élite di “happy few”, Jelili Atiku prova il contrario. Da Lagos a Casablanca, passando da Vancouver e Tokyo, quest’artista di fama internazionale si mette in scena nello spazio pubblico e, senza aver paura di turbare il pubblico, interroga le ineguaglianze e l’ingiustizia sociale.

Jelili Atiku e i suoi compagni sono stati rilasciati qualche giorno dopo, come dichiarato dall’artista sulla sua pagina Facebook, Atiku rivela che hanno subito minacce e trattamenti degradanti nel carcere di Kirikiri. Uno dei fattori chiave nella liberazione di Jelili è stata la pressione sui social media e la campagna messa in atto da CORA/Arterial Network Nigeria e la Society of Nigerian Artists.

Ricordiamo la sua toccante performance a Parigi a luglio 2015 davanti all’Université La Sorbonne, in strada come è suo uso, organizzata dal centro studi “Les Afriques sans le monde” nell’ambito della rassegna African Acts, una settimana dedicata alle arti contemporanee parallela alla “European Conference of African Studies” che ha visto riuniti nella capitale francese africanisti di tutto il mondo.

 

Jelili Atiku, “Earth with Trees and Water I Am (Alaaragbo VIII) – Terre et arbres et eau je suis (Alaaragbo VIII).” presso la Place de La Sorbonne a Parigi. Photo ©Sandra Federici

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01 ottobre 2015

E’ iniziato il SUQ delle culture a Milano!

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Arriva per la prima volta a Milano il SUQ delle culture, un’iniziativa nata a Genova nel 1999 che comprende percorsi creativi e workshop – dedicati a Recitare, Cucinare, Abitare, Cucire, Disegnare e Suonare il Dialogo – e un grande bazar delle culture che si pone come vetrina dei temi dell’integrazione attraverso il teatro, la musica, l’arte, la cucina e l’artigianato.

Da domenica 27 settembre a domenica 4 ottobre 2015, il SUQ delle Culture, promosso dalla Fabbrica del Dialogo, regala alla città otto giorni di teatro, musica, danza, laboratori, concerti, spettacoli e incontri su ambiente e mondialità in una teatrale scenografia che ospita differenti cucine e spazi espositivi con artigianato e prodotti da tutto il mondo.

Seguendo un ricco e colorato palinsesto, ogni giorno è possibile partecipare a laboratori artigianali, approfondire le buone pratiche su temi eco-sostenibili, seguire workshop e dimostrazioni legate al cibo e alla sua storia.

Ma soprattutto al Suq delle Culture è possibile conoscere tradizioni ed esperienze diverse dalle proprie immersi nell’atmosfera conviviale del teatro-mercato, camminando, mangiando e acquistando prodotti artigianali unici tra gli stand del grande bazar, da sempre simbolo di incontri e scambi tra genti e culture, tradizioni e merci.

Il programma completo del festival è disponibile sul sito della Fabbrica del Dialogo.

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06 maggio 2015

In Marocco si combattono le discriminazioni con il teatro di strada

Teatro di strada in Marocco

Questa settimana vi portiamo in Marocco! Passeggiando in sei regioni del Paese da giugno in poi, si potrà incontrare un gruppo di attori che recitano seguendo le tecniche del Teatro dell’Oppresso per promuovere la diversità e coinvolgere la popolazione a vari livelli. Il progetto, intitolato “Drama, Diversity and Development” (Teatro, Diversità e Sviluppo) affronta un problema abbastanza diffuso in Marocco: il razzismo nei confronti dei cittadini Sub-sahariani. Si appoggia ad artisti locali e prevede anche dibattiti dopo le performance per innescare una riflessione sulla società plurale, sulle differenze, le discriminazioni, l’uguaglianza e la giustizia.

Prima delle performance pubbliche, gli attori hanno partecipato a due residenze artistiche: la prima per approfondire le proprie tecniche di recitazione e scenografia attraverso vari esercizi, dall’espressione corporea alla creazione musicale, coreografica e teatrale, la seconda per finalizzare la performance da portare in scena – anzi, in strada.

Questo progetto è interessante per vari motivi: innanzitutto perché si tratta di un’iniziativa contro il razzismo svolta nei paesi del Nordafrica, dove spesso i migranti subsahariani sono discriminati dalla popolazione locale; in secondo luogo perché ci fa vedere uno degli aspetti concreti della trasformazione in atto da tempo in Africa per cui alcuni Paesi in fase di forte sviluppo sono meta di flussi migratori interni al continente; infine, perché propone una declinazione africana del Teatro dell’Oppresso, nato in Brasile negli anni 60 grazie allo stimolo delle idee di Paulo Freire e del suo trattato, La pedagogia degli oppressi.

Africa e Mediterraneo ha presentato vari esempi di “arte sociale” sperimentati a livello europeo nel dossier del numero 1/2012 (n. 76) dal titolo “L’arte crea legami”.

Drama, Diversity and Development è un progetto realizzato da Minority Rights, Civic Forum Institute Palestine (CFI) and Andalus Institute for Tolerance and Anti-Violence Studies. Da seguire!

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20 marzo 2015

Fumetti africani: la mostra Waka Africa a Parigi

La mostra Waka Africa a Parigi.

La mostra Waka Africa a Parigi.

Sono rimasti pochi giorni per andare a vedere Waka Africa,  la mostra di fumetti, caricature e collage che riunisce delle opere degli artisti africani dell’associazione l’Afrique dessinée. Un tuffo dell’Africa urbana contemporanea rappresentata dalle matite degli artisti, e un mosaico di ritratti di Africani e del posto che occupano in questo continente in costante movimento. La mostra esplora vari aspetti delle società africane, spaziando dal rapporto con l’altro alla questione del potere e del denaro, all’immigrazione…

Tra gli artisti esposti figurano Adjim Danngar e Al’Mata, fumettisti con i quali Africa e Mediterraneo collabora da vari anni, ma anche del presidente dell’associazione Christophe N’Galle Edimo, di Bertin Prosper Amanvi, Chrisany, Fifi Mukuna, Rafaël Espinel, Simon Pierre Mbumbo, Faustin Titi et Willy Zekid.

 

 

La mostra è ospitata dalla Biblioteca Universitaria Jean Dausset fino al 26 marzo. Un’iniziativa di qualità, che racconta un’Africa lontana dagli stereotipi.

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24 ottobre 2013

CinemAfrica 2013, la rassegna di film dall’Africa e sull’Africa

Dal 25 al 27 ottobre si svolgerà presso il Cinema Perla di Bologna l’ottava edizione di CinemAfrica, la rassegna cinematografica a cura del Centro Studi “Donati”.

Eritrea, Mali, Senegal, Somalia, Kenya, Algeria sono i paesi protagonisti di questa edizione: 6 proiezioni di grandissima qualità, 6 racconti che spaziano attraverso storia, immigrazione, guerra, economia, 6 momenti per raccontare l’Africa e attraverso queste storie decifrare la realtà.

I film in programma (clicca sul titolo per vedere il trailer):

Scarica il comunicato stampa

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16 ottobre 2013

Un secolo di immigrazione a fumetti: a Parigi la mostra “Albums”

Al Musée de l’histoire de l’immigration di Parigi è stata appena inaugurata la mostra Albums – Bande dessinée et immigration. 1913-2013, che sarà aperta al pubblico fino al 27 aprile 2014.

Con più di cinquecento opere in esposizione tra carte e documenti originali, tavole, bozzetti, film di animazione, interviste video e  fotografie, la mostra prende in considerazione il fenomeno migratorio visto attraverso l’arte di 117 fumettisti.

Il percorso comincia da Goscinny e Uderzo, padri dell’eroe nazionale Asterix, che hanno avuto entrambi una storia di migrazione e finisce con gli autori africani residenti in Francia come rifugiati politici.

Anche un po’ di Africa e Mediterraneo sarà a Parigi, tra le opere esposte infatti vi segnaliamo:

  • alcune tavole originali di Une éternité à Tanger di Eyoum Ngangué e Fustin Titi (Africa e Mediterraneo, 2004);
  • la proiezione su schermo della storia Le voyage di Paul Assako Assako, tra i vincitori del premio Africa e Mediterraneo 2007/2008.

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08 ottobre 2013

Inizia oggi il Festival Internazionale del Fumetto di Algeri

Il fumetto africano, o meglio l’identità africana dei fumetti ha una storia relativamente recente. Fino all’Ottocento i fumetti che si ritrovavano nelle colonie in Africa provenivano prevalentemente dai paesi colonizzatori, come la Francia. Ciò nonostante, il fumetto africano oggi non può essere ridotto alla semplice colonizzazione culturale da parte di paesi occidentali, nonostante ci sia come dappertutto uno scambio e un interesse per il fumetto europeo (Gulp!… un fumetto africano? di Massimo Repetti).

A dimostrazione di una sempre maggiore vitalità nella scena del fumetto africano, segnaliamo il Festival International de la Bande Dessinée d’Alger, giunto quest’anno alla sua sesta edizione. Il festival è aperto ad artisti di tutto il mondo ma costituisce attualmente una vetrina molto importante per gli autori africani. Tra gli artisti selezionati per il concorso legato al festival troviamo 13 autori che in passato hanno partecipato ad Africa Comics, il progetto di Africa e Mediterraneo per la promozione e la diffusione del lavoro dei fumettisti africani in Europa.

Congratulazioni a:

Benjamin Kouadio

Ndrematoa

Japhet Miagotar

Albert Tshisuaka

Al’Mata

Aimé Guigma

Kaboré Timpousga

Landry Kamdem

Jérémie Nsingi

Joshua Okoromodeke

Didier Viodé

Kokouvi D. Anthony

Asimba Bathy

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